Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
(Haina 1751 – Eutin 1829)
Paride
olio su tela
cm. 62 x 49; 1785
Quando, nel 1785, David espose nel suo studio romano il Giuramento degli Orazi, Tischbein, di nuovo a Roma dall’83 dopo il primo soggiorno del 1779 – 1781, ne fu profondamente colpito: “quando lo vidi, mi assalì un gelido brivido dovuto alla severità dei figli che giurano” (Tischbein 1993, pp. 187 – 188), avrebbe poi scritto nell’autobiografia. Del resto lo stesso Goethe, che al suo arrivo nella capitale pontificia nel 1786 fu accolto ed ospitato da Tischbein, registrò nella sua Italienische Reise l’impatto emotivo esercitato sul pittore tedesco dalla visione della celebre opera, al punto da indurlo, dopo aver licenziato per il duca di Gotha il dipinto di storia patria con Corrado di Svevia e Federico d’Austria in carcere (1784), “a intraprendere la pittura in grandezza naturale della sua Sfida di Ettore a Paride in presenza di Elena” (Goethe 1983, p. 435); tela ritenuta dispersa fino al 1998 (quando passò sul mercato antiquario londinese) e di cui le due teste qui esposte costituiscono gli studi finiti per i ritratti ideali delle figure di Elena e Paride (Apolloni 1997, pp. 18 – 21), realizzati in quel medesimo 1785 in cui lo stesso David forse veniva già elaborando il tema de Gli amori di Elena e Paride per il grande quadro poi esposto al Salon del 1789.
Dapprima ossessionato da soggetti “che agissero sullo spirito dei tedeschi, storie patrie, dove forti personalità dal nobile animo compissero azioni […] quali modelli da imitare” (Tischbein, cit., p. 182), e quindi da una precoce lettura storicistica in chiave moderna dell’exemplum virtutis di formulazione francese, dopo la palingenesi innescata dal pellegrinaggio allo studio di David, Tischbein venne meditando intorno a due grandi dipinti didascalici di storia antica, uno che rappresentasse “il grande carattere”, fiero, “di Sofonisba, che, superba nella disgrazia, guarda con il disprezzo il suo vincitore” (ibidem, p. 186), e l’altro, appunto, con Ettore che esorta Paride al combattimento in presenza di Elena.
Su come l’inventio del pittore si venisse sostanziando di immagini reali, alternativamente riconducibili al registro “eroico” o “grazioso”, in ordine alla prassi accademica codificata da Winckelmann e Mengs secondo le rinnovate istanze classiciste, è lo stesso Tischbein ad informarci nell’autobiografia: “Dovunque io stessi o andassi, Sofonisba mi stava sempre in mente, anche nei sogni mi appariva l’augusta figura. Alternativamente, nello stesso tempo, si presentava alla mia fantasia anche l’immagine contraria. Accanto a quel forte carattere femminile vedevo la bella, avvenente e dolce Elena […]. Se vedevo occhi che avessero un che di augusto, di superbo, che guardassero dall’alto in basso […] allora li disegnavo per la Sofonisba […]. Ma se vedevo occhi dalle belle forme e incantevolmente ridenti li disegnavo per l’Elena. E similmente facevo con gli studi per le altre parti della testa” (ibidem, pp. 186 – 187).
Nonostante la ricercata astrazione fisiognomica tesa al perseguimento dell’agognato ma forse ineffabile bello ideale (“L’impossibilità di definir la bellezza nasce dall’esser ella una cosa superiore al nostro intelletto”, aveva scritto Winckelmann nei Monumenti antichi inediti; Winckelmann 1973, p. 143), la torsione del collo, l’impercettibile asimmetria delle gote accese dai toni rosati, la sensualità delle labbra, lo sguardo timidamente ammiccante – elementi tutti impreziositi dalla resa smaltata delle superfici e dai leggeri rialzi di luce – documentano l’insistente attenzione riservata all’osservazione del vero naturale (la “bella natura” canoviana), sebbene l’acconciatura dei capelli (“Al compimento della bellezza della fronte si richiede che i capelli vi vadano descrivendo quasi un arco intorno intorno fin sopra le tempie, per concorrere a formare l’ovato del viso”, aveva ancora sentenziato lo storico tedesco; ibidem, p. 171), la scriminatura centrale, il preciso ovale del volto e linee del naso unite alle arcate sopraccigliari denotino una purezza formale mutuata dai tipi femminili della statuaria classica, magari dalla Flora Farnese o da una delle Niobidi.
“Voi farete una volta spicco tra i pittori”, vaticinò Pompeo Batoni quando Tischbein gli mostrò “una testa di Paride, che gli piacque tanto” (Tischbein, cit., p. 188), verosimilmente non distante da quella qui esposta. Il pittore tedesco del resto, sarebbe tornato nuovamente sulla figura di Paride quando ne inserì la testa, insieme ad altre figure omeriche, nella celebre tavola de I sette eroi pubblicata a Metz nel 1801 nella serie delle Figures d’Homère dessinées d’après l’antique, arricchita dai commenti dell’erudito Christian Gottlieb Heyne che, a proposito dell’eroe troiano, avrebbe scritto: “Capigliatura a riccioli e berretto frigio: è Paride. Disegnata dalla statua del museo Clementino la quale era in tempi passati nel palazzo d’Altemps […] C’è una quantità di opere dove si presume che Paride sia rappresentato. A più di una bella figura di adolescente si è messa una mela in mano, dicendo: “Sii Paride”” (in Negro Spina 1994, p. 121).
Francesco Leone