Opera non disponibile
Adolfo Wildt
(Milano 1868 – 1931)
Vergine
Marmo, cm 33,8 x 29 x 12
Firmato sotto il mento: A.WILDT
Bibliografia: Benzi 1987, p. 64; Mola 1988(1), p.40
La Vergine ha condiviso la rinnovata fortuna espositiva che ha accompagnato la recente rivalutazione critica di Adolfo Wildt, avviata dagli studi di Paola Mola, essendo stata esposta, in una delle sue numerose versioni, in tutte le rassegne a lui dedicate, da quella di Milano del 1988 (Mola 1988, p.174) a quelle di Venezia, Brescia e Forlì (Mola, Scheiwiller 1989 n.32; Pontiggia 2000, p.94; Sgarbi 2000, pp.92 e ss.).
Il primo esemplare della Vergine fu realizzato nel 1824. L’opera fu esposta l’anno successivo alla III Biennale di Roma, nel 1926 a New York e nel 1927 sia a Ginevra che a Milano, alla mostra di Novecento Italiano allestita presso la Galleria Scopinich e curata da Margherita Sarfatti. Il grande critico veneziano aveva promosso e incoraggiato Wildt sin dall’esordio nel 1919 alla Galleria Pesaro, contribuendo alla sua affermazione. Nel 1929 l’ultima opera portata a termine dall’artista sarà proprio il suo ritratto, inviatole in dono. Anche l’opera qui esposta, la stessa già presentata presso le gallerie Arco Farnese e Gian Ferrari, proviene dalla sua collezione e una fotografia d’epoca la ritrae nel suo studio con la Vergine sulla parete di fondo.
Recensendo la Quadriennale di Torino del 1923 la Sarfatti era sin d’allora in grado di focalizzare i temi della scultura wildtiana: la continuità con la tradizione – dal Quattrocento lombardo al virtuosismo secentesco – nel segno dell’eccellenza tecnica, la capacità di trasfigurare la pietra in carne con l’ossessivo lavoro sulla superficie, la deformazione e il chiaroscuro come veicoli d’espressione, la spiritualità di matrice nordica e il magistero in grado di influenzare generazioni di scultori. Scriveva: “Adolfo Wildt, il primo maestro dell’arte del marmo che abbia oggi l’Italia, è l’erede dei marmorari e tagliapietre antichi per la perfezione vigile e precisa con la quale incide senza debolezze nella pietra lucida e dura, il segno della sua volontà.
La polisce con infinito amore, la rende preziosa come una gemma, vi scava ombre nere e crudeli. Tanto ha superato le difficoltà della tecnica, tanto si è assoggettata la materia, da godere nel piegarla con minuziosa pietà, e con l’amore e il rancore della passione. Tende ad annullarne il peso e la consistenza, e trasfigurarla tutta in spiritualità di espressione. Inclina talvolta verso un tormento barocco e spagnoleggiante; tal’altra ricorda i gotici angolosi e dolorosi; due epoche, il ‘600 della scomposta virtuosità, il ‘300 della rigidezza architettonica, l’una e l’altra trasmodanti nello spasimo. […] E’ uno spirito religioso, perciò ha l’autorità e il fervore del Maestro” (Sarfatti 1925, pp.14-15).
Le sue illuminanti parole naturalmente sono una chiave di lettura anche per la Vergine, dove i morbidi passaggi del rilievo segnano il dolore sereno di un volto dalla superficie politissima e il richiamo classicista canoviano, rilevato dalla Mola, si lega ai ritmi lineari delle stilizzazioni moderniste europee.
Stefano Grandesso