Opera non disponibile
Vincenzo Gemito
(Napoli 1852-1929)
Vecchio prete
bronzo, cm 15,5 x 8 x 9
Sul verso incisa la dedica: D Morelli
Nell’estate del 1881, dopo la morte della compagna Mathilde Duffaud, Gemito si ritirò per qualche tempo a Capri, in compagnia dell’amico Paolo Vetri, allievo prediletto e poi genero di Domenico Morelli. Dopo i mesi di inattività dovuti allo sconforto per la malattia di Mathilde, nell’isola il “barbarossa”, come veniva chiamato, ritrovò energia e ispirazione, riprendendo a modellare piccole figure di donne, o vecchi, come il Prete qui esposto (Siviero 1953, p.53), probabilmente una delle rare riproduzioni del bronzo facente parte della collezione napoletana di Achille Minozzi, amico e protettore di Gemito (Schettini 1944, p. 221).
L’omaggio a Morelli, documentato dalla dedica, è prova di quella stima reciproca che legò, almeno fino alla metà degli anni ‘80 (Schettini ipotizzava che Gemito, sposata la bella Anna Cutolo, già modella di Morelli, ne fosse geloso; Schettini 1944, p.29; ma è anche probabile che Gemito accogliesse con insofferenza alcune commissioni procurategli dal maestro; De Marinis 1993, p.139), il più giovane, inquieto scultore, all’affermato pittore. Morelli infatti, che nel concorso per il pensionato artistico del 1872 appoggiò fortemente la candidatura di Gemito, ottenendo poi per lui la commissione del marmo del Bruto per il ministro della pubblica Istruzione Cesare Correnti, già in occasione della Promotrice napoletana del 1870, alla quale Gemito partecipò con il Giocatore, parlava al cognato Pasquale Villari di “una statua in terra cotta di un bravo giovanetto, grande al vero che rappresenta il vizio. E’ un lazzariello seduto a terra con alcune carte da gioco con le quali si esercita egli solo. E’ trattata largamente e mi pare bellissima, quasi nuda con la coppola in testa, e fatta con una espressione bellissima” (in Morelli 2002).
Proprio nell’espressività degli occhi, della piega delle labbra, delle rughe del viso, la scultura, pur nelle dimensioni ridotte, mostra quella “capacità di fare trapelare i moti dell’animo dall’atteggiamento del corpo, dai gesti, dal movimento dei muscoli del viso, da certe forzature dei tratti fisionomici” (Damigella 1998, p.90); capacità che aveva fatto di Gemito non ancora trentenne, già nella Parigi del 1877, artista ammirato per lo stile e la tecnica originali e per la forte carica vitale, tanto nei larghi modellati dei levigati nudi efebici quanto nei ritratti dalla materia più scabra e tagliente.
L’innato senso della plastica che portava lo scultore a studiare appassionatamente nuovi strumenti, nuove leghe e inedite sperimentazioni con metalli preziosi, si traduce qui in un bronzo dalla superficie vibrante, mutevole, dalle ombre dorate, con esiti certo distanti dai pacati modelli del primo maestro, Emanuele Caggiano, più vicini a quelli di un riconosciuto innovatore come Stanislao Lista, del quale pure Gemito aveva frequentato lo studio, ma soprattutto partecipi delle coeve ricerche tanto formali che tecniche del fraterno amico “Totonno”, Antonio Mancini.
“Geloso di Cellini” come lui stesso si era definito in una lettera a Meissonier del 1883 (Guida 1952, p.5), nella piccola fonderia di Mergellina impiantatagli dal suo protettore, il barone Oscar Du Mesnil, instancabile, esigente, con l’aiuto di pochi collaboratori Gemito seguì personalmente fino al 1886, anno del ricovero in casa di salute, la fusione e la riproduzione delle sue cere, attività che fino al 1905 venne comunque accuratamente, e parcamente, assicurata dalla moglie Anna. Rimessosi all’opera, con una foga esasperata dalla estrema sensibilità, proprio nel frenetico lavoro in fonderia Gemito esaurì le ultime energie. La morte nel marzo 1929, proprio dopo una notte febbrilmente trascorsa al crogiuolo, concludeva in un certo senso eroicamente una vita artistica non a caso celebrata, già nel 1901, dall’“imaginifico” Gabriele D’Annunzio.
Anna Villari
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