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Giacomo De Maria
(Bologna 1762-1838)
Ulisse riconosciuto da Penelope
Terracotta, cm 34,3 x 19,5
Giacomo De Maria è figura emblematica della diffusione del linguaggio classico da Roma agli altri centri della penisola alla fine del Settecento, grazie al suo ruolo decisivo nel rinnovamento del gusto a Bologna (sullo scultore Mampieri 1990; Zamboni 1990; sul dibattito artistico Farioli – Poppi 1987).
La tradizione locale della scultura, incarnata anche dal suo maestro Domenico Piò, era scuola di plasticatori, che prediligeva cioè materiali plasmabili come lo stucco, l’argilla, la cera. Dal suo soggiorno a Roma (1787-88) De Maria riportò in patria l’abilità acquisita nell’arte di tagliare il marmo. Fu dunque l’unico dei giovani a potersi cimentare nel 1789 al primo Concorso Curlandese per la scultura, che prevedeva la realizzazione di una lastra in marmo a bassorilievo, laureandosi con la prova de Le Arti incoronate dal Genio (Bologna, Pinacoteca Nazionale, Grandi 1980, p. 134).
Negli anni seguenti le richieste della committenza e fattori legati ai costi, ma anche la sua facilità nella plastica, lo portarono a scolpire il marmo solo episodicamente e a non abbandonare i materiali cari alla tradizione locale. Essa era ancora tanto radicata a ridosso della Restaurazione che Pietro Giordani, il letterato piacentino che svolgea l’ufficio di Segretario dell’Accademia, si rivolse pubblicamente a più riprese agli scultori affinché impiegassero solo il marmo, in quanto materia nobile per eccellenza ma soprattutto perché l’unica, grazie alla sua durevolezza, in grado di assolvere il compito più elevato della statuaria, quello di eternare la memoria dei grandi (Grandesso 1999, pp.43-45).
Proprio a Bologna Giordani aveva segnato un momento memorabile del culto canoviano recitando il celebre Panegirico ad Antonio Canovanel 1810. De Maria era legato al magistero dell’artista veneto, conosciuto a Roma. Una volta tornato in patria aveva potuto tenersi aggiornato sulle nuove opere dell’amico, con cui ebbe un lungo scambio epistolare, sia attraverso le traduzioni calcografiche, che grazie ai calchi in gesso giunti anche a Bologna come fondamentale strumento didattico per gli allievi dell’Accademia. Nel segno del confronto con Canova De Maria stabilì una tradizione nella città felsinea, destinata ad essere seguita sia da Adamo Tadolini, che pur risiedendo stabilmente a Roma inviò in patria numerose opere, sia da Cincinnato Baruzzi, altro allievo di Canova, che sostituì nel 1831 De Maria nella Cattedra di Scultura dell’Accademia.
Il gruppo di Ulisse riconosciuto da Penelope non è firmato, né compare nella lista autografa deiLavori di scultura redatta da De Maria nel 1826 e pubblicata da Zamboni. In quel catalogo l’autore si era però limitato alle opere maggiori, escludendo gran parte dei bozzetti eseguiti e scrivendo: “Riguardo poi ai lavori di statuine e bassi-rilievi sacre e profani fatti per tante e tante persone di Bologna e fuori, non potrei quand’anche il volessi ricordarmeli” (Zamboni 1990, p.135).
L’attribuzione allo scultore bolognese si deve a Stefano Susinno e mi sembra da confermare. Essa è fondata sulla base della sua stretta affinitĂ con i bozzetti preparatori del gruppo della Morte di Virginia (1806-11, Liverpool, Walkers Art Gallery): due ora nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna (Riccomini 2000) e uno in collezione Macchi: sia nelle fisionomie dei volti, sia nella foga dell’azione, che forza la misura classica, l’eco mai spenta in De Maria della lezione del “sublime” di Luigi Acquisti (Zamboni 1989, p.78). Come in quelle opere, compare qui la citazione dell’antico – in particolare delle Niobidi nella figura di Penelope – e il legame con Canova: il gruppo di Venere e Adone (Ginevra, Villa La Grange), modellato nel 1816, è ripreso nella gestualitĂ e nel rapporto reciproco tra le figure. Non a caso l’opera poteva essere fonte di ispirazione negli stessi anni per il giovane Adamo Tadolini (Giasone e Medea, Roma, Studio Tadolini), giĂ allievo di De Maria a Bologna.
Stefano Grandesso
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