| OPERA NON DISPONIBILE
Gorizia 1755 – 1825 Vienna
Allegoria: Riflessione sulla caducità della felicità umana. Francesco Serafino principe di Porcia in meditazione
1810-1825 circa
Olio su tela, cm 163 x 287.
Provenienza: principe Francesco Serafino di Porcia, Porcia, castello, o Spittal, Carinzia, Castello Porcia; collezione privata, Carinzia.
L’attribuzione di questo dipinto finora sconosciuto al pittore Caucig è consentita dallo stile dell’artista, le menzioni nella letteratura più antica e lo schizzo, con due piedi ed una testa femminile, realizzato dal pittore per l’esecuzione dell’opera (Vienna, Akademie der bildenden Künste Wien, Kupferstichkabinett di Vienna, inv. nro. 1456; pubbl. in Rozman 1978, ca. 144).
L’equilibrata composizione, con le figure al centro della narrazione collocate in primo piano, è delimitata a sinistra da un albero e da un cipresso svettante verso il cielo, motivo molto amato dal Caucig. Sul lato destro, sotto una possente quercia, un gentiluomo, vestito con un abito alla moda ed un mantello stile impero, sta languidamente semisdraiato su una roccia in atteggiamento contemplativo. Motivi tipici del Caucig sono l’attenzione per i dettagli botanici, il roseo cielo mediterraneo al tramonto, la resa del paesaggio e, soprattutto, la tipologia e le posture dei personaggi. La dimessa figura femminile scalza con un pane nella bisaccia, che si sorregge il capo con una mano, è un tipo di figura che Caucig ha utilizzato anche per altri olî e disegni e che ha ripreso dall’arte classica. Nella memoria del pittore queste figure erano un ricordo del periodo trascorso a disegnare le sculture ed rilievi delle collezioni romane. L’attraente, elegante suonatrice di chitarra, con una veste bianca dalle pieghe pesanti e il viso dalla bellezza classica, è una citazione dei volti e delle acconciature di antiche bellezze come Venere ed altre figure femminili presenti nei Musei Capitolini, a Villa Albani e altrove. Caucig le ha rielaborate ed inserite nelle proprie composizioni. Il putto alato, che in una mano tiene una coppa di vino e nell’altra una torcia accesa rivolta verso il basso, ha la testa riccioluta delle figure infantili e giovanili caratteristiche del Caucig (Narciso, Semiramide nutrita dalle colombe, Cypselus /Cisselo bambino) – ma anche questi tipi derivano da modelli classici e ricordano i disegni del pittore, ad esempio quelli che riproducono Eros che incorda l’arco dei Musei Capitolini oppure le statue di Palazzo Mattei, dei Musei Vaticani e di Villa Albani. La posa del principe assorto, avvolto nel mantello e con la gamba sinistra tesa, ricorda, per la posizione simile della gamba e del corpo, il ritratto di J. H. W. Tischbein Goethe nella campagna romana, dipinto nel 1787 a Roma e poi riprodotto in incisione. Forse il Caucig si era ispirato anche a questo quadro nel realizzare la propria opera.
I contorni precisi, quasi duri, i colori freddi, l’effetto brillante e porcellanato delle superfici insieme ai caratteristici dettagli rosso scarlatto delle vesti, sono in piena sintonia con le tendenze ed i canoni della pittura neoclassica, ai quali il Caucig si ispirava e che seguì per tutta la vita.
L’attribuzione, supportata dalle peculiarità stilistiche del pittore, è ulteriormente avvalorata da altre prove, come il disegno dei dettagli per i piedi scalzi della donna triste e, sullo stesso foglio, lo schizzo della testa della donna al centro. La terza prova è costituita da una notizia, riportata sulla rivista Archiv del 1825, secondo la quale il Caucig avrebbe realizzato “due dipinti allegorici” per il principe Serafino di Porcia (Boeck 1825). Sono diversi gli argomenti che ci inducono a sostenere che una di tali allegorie è proprio questo quadro. In primo luogo la collaborazione a quella rivista di Ignaz Kolmann, per lunghi anni segretario del principe di Porcia. A quanto sembra fu lui a fornire la notizia a F. H. Boeck, che per primo ha riferito delle due Allegorie del Caucig.
Kollmann, scrittore, pittore e, come è emerso di recente, tramite il principe di Porcia anche buon conoscitore del Caucig aveva descritto la visita a Francesco Serafino di Porcia nel suo castello di Porcia in Friuli nel volume Triest und seine Umgebung (1807, pp. 137-140). Le pareti delle sale della dimora erano decorate da pitture, tra cui anche “lo splendido dipinto del signor Caucig di Vienna Porzia, moglie di Bruto, prima di inghiottire i carboni ardenti”, realizzato dall’artista a Venezia nel 1794 e donato poi dal principe nel 1812 al neocostituito museo Joanneum di Graz (dove si trova anche l’Orfeo piange Euridice che Caucig donò nella stessa occasione). La tela del Caucig con la malinconica figura del principe come protagonista non era menzionata e quindi si può supporre che non fosse ancora eseguita. Ornavano allora il castello anche immagini allegoriche, incisioni e iscrizioni di contenuto morale e filosofico.
Il principe Francesco Serafino di Porcia (Porzia), Brugnera e Ortenburg (Konjice/Gonobitz, oggi Slovenske Konjice presso Celje 1755 –1827 Venezia) apparteneva a un’antica famiglia nobile con possedimenti in Friuli, a Trieste, Gorizia, in Carinzia, Carniola (oggi parte della Slovenia), Stiria e Baviera. Umanista e filantropo, si interessava di medicina, filosofia, letteratura, pittura e botanica. Pubblicò a più riprese in italiano le sue riflessioni filosofiche, morali e religiose sull’uomo, tradotte dall’originale manoscritto in tedesco (Porcia 1814; 1815; 1820) ed era noto per essere una persona eccentrica e di spirito (Neue Annalen 1807; Wurzbach 1872, pp. 117-120; Benedetti 1963). Lui stesso dilettante di disegno e pittura ideò alcune composizioni di soggetto allegorico. Travestito da venditore ambulante di stampe distribuì a un veglione alla Scala l’incisione da lui predisposta di un ballo macabro, provocando scandalo. Si fece poi ritrarre in compagnia di uno scheletro, tra iscrizioni allusive. E infine fece incidere il soggetto ripreso poi nel dipinto di Caucig dal viennese Johann Böhm su disegno proprio del citato Kollmann. L’incisione, ancora non rintracciata ma descritta nei Neue Annalen del 1807, rappresentava la malinconia del principe nell’allegoria del suo ritratto, sedente in atteggiamento pensoso, accanto a una giovane donna, in procinto di suonare la chitarra, con una carta da gioco tra i seni e una maschera fissata sulla manica. Il lungo strascico del suo abito era sorretto da una donna di aspetto sgradevole e da uno scheletro che da dietro le porgeva una coppa dalla quale esce la sentenza: lude, post mortem nulla (divertiti, dopo la morte non c’è nulla). Sopra il gruppo si leggeva: “In casa della Tristezza è la Verità”, in basso, divise dallo stemma Porcia, comparivano le scritte “Madama Allegria – Il principe Francesco Serafino Porcia in Ipocondria”.
La descrizione corrisponde a un piccolo dipinto anonimo conservato ancora presso i discendenti, nel castello di Porcia. Rispetto a quell’immagine grottesca e di gusto nordico e germanico, la traduzione in grande di Caucig acquisiva una dimensione classica nella sua pausata compostezza e solennità, in grado di proiettare la riflessione filosofica alla base dell’allegoria in una dimensione di universalità.
Sulla destra il principe sedente e pensieroso reca l’onorificenza della Gran Croce dell’Ordine bavarese di San Uberto, con la sua fascia rossa bordata di verde (Leist 1892, p. 51; Henning, Hertfurth 2010, p. 17), che il re di Baviera concedeva per la fedeltà alla sua persona e l’attività caritatevole verso i poveri (Ackermann 1855, p. 35). Il conferimento di questa decorazione al Porcia nel 1805 costituisce uno dei punti di riferimento post quem per la datazione del quadro. “La donna ammaliatrice con la chitarra, il seno in evidenza e la maschera sulla manica rappresenta lo sfarzo, la voluttà, il gioco e l’arte” – così nei Neue Annalen del 1807 l’analoga figura dell’incisione – aggiungeva qui alla sua serena bellezza un tratto psicologico di affettuosa partecipazione al sentimento del protagonista. Essa incarna la bellezza e lo svago nel gioco, nella musica, nel teatro. Nel dipinto di Caucig lo scheletro con la coppa è sostituito da un giovane fanciullo nudo con la torcia rivolta verso il basso, in riferimento all’iconografia classica per la rappresentazione della morte. Il vino che egli porge è simbolo dell’estasi, ma anche dell’abbandono e dell’oblio. Accanto una donna povera e scalza, che sostiene lo strascico di quella riccamente vestita, rappresenta propriamente il rimpianto e la nostalgia, ma anche la vanità delle ricchezze materiali. La sua miseria ricorda lo stato di molti e il pane nella bisaccia allude probabilmente alla generosità del principe, unanimemente ricordato come un filantropo. Il paesaggio sullo sfondo, memore dei disegni tratti da Caucig nelle sue peregrinazioni in terraferma durante il soggiorno veneziano, rappresenta le Prealpi friulane, con la riconoscibile mole del castello di Porcia in lontananza.
Questa colta immagine traduce dunque una meditazione sui rimedi all’ipocondria, sintomo della malinconia, secondo la tradizione della medicina classica, da Ippocrate in poi, e della recente trattatistica europea, ad esempio nell’opera del medico padovano Giuseppe Antonio Pujati pubblicata a Venezia nel 1762 (cfr. Riva 1992, pp. 52 e ss.). E dunque l’aria aperta, la bellezza, l’amore e il piacere, la distrazione delle arti, l’armonia, il gioco, il riposo, il vino e, nell’attitudine del principe, la filosofia medesima. Contemporaneamente, nella constatazione irrimediabile della loro vanità alla pari di onori e ricchezze, costituisce una riflessione sulla condizione umana in generale e probabilmente sui diversi stati sociali, accomunati da un identico destino. Quest’allegoria emblematica non riflette unicamente la bizzarra immaginazione di un principe saturnino. Ma sembra dare rappresentazione a un sentimento che, pur universale, apparve nel Settecento come la malattia del secolo per l’uomo di genio, con una sua precisa formulazione letteraria nell’opera, ad esempio, di Vittorio Alfieri, e un mutamento di sensibilità che prelude all’uomo moderno (sull’argomento cfr. Riva 1992).
Nel preciso catalogo delle opere di Caucig pubblicato nel 1810 nei viennesi Annalen der Literatur il dipinto non si trova ancora elencato. Mentre l’esaminata citazione nel 1825 costituisce il termine ante quem per la sua esecuzione. Che si può supporre non troppo distante dalla prima data, sia per il suo rapporto con l’incisione del 1807, che per la prossimità concettuale con un dipinto, non si sa se eseguito, che Porcia aveva commissionato a Caucig nel 1809. In una lettera all’architetto Pietro Nobile, datata Vienna, 5 aprile 1809 (cit. in Benedetti 1963, p. 27), il pittore informava che il principe di Porcia gli aveva commissionato allora un’allegoria, rappresentante Alessandro Magno che dopo tante conquista si riposa sulle rovine, un tema filosofico che lui gradiva.
Franz Kavčič o Caucig, artista goriziano di origine slovena, aveva studiato a Vienna, Bologna e Roma nel penultimo decennio del Settecento, ai tempi in cui vi risiedeva ed esponeva J. L. David (cfr. Rozman 2007; Ead. 2010, con bibl. prec.). A Roma visse nella stessa casa in cui abitavano Felice Giani e Joseph Bergler, primo direttore dell’Accademia di Praga. Con Bergler e gli altri colleghi disegnò i motivi di Roma e della campagna romana e studiò le antichità, improntando il proprio stile al classicismo della scuola romana, allora in rapida trasformazione nella comunità cosmopolita degli artisti. Conobbe Antonio Canova, con cui intrattenne per lunghi anni una rispettosa e cordiale corrispondenza. Nel 1791 il conte Filippo Cobenzl, mecenate e protettore del Caucig, lo mandò per cinque mesi a Mantova per procurare alcuni calchi di gesso per l’Accademia di Vienna e copiare i rilievi di Palazzo Tè. Successivamente fu mandato a studiare a Venezia. A causa dell’avanzata delle truppe napoleoniche, nel 1797 fece ritorno a Vienna dove iniziò la carriera di professore. Fu anche a capo della sezione porcellane della manifattura viennese e, dal 1820 sino alla morte, direttore della scuola di pittura e scultura della locale Accademia di arti applicate. Nel 1795 divenne membro onorario dell’Accademia di Venezia e nel 1823 di quella romana di San Luca. Il suo mecenate, il conte Filippo Cobenzl, ed i suoi committenti – i principi Auersperg, i conti Colloredo Mansfeld, Czernin, Fries e Schönborn, il principe Liechetenstein, il principe di Porcia, il duca von Sachsen-Teschen, ecc. – erano persone istruite, amanti dell’arte e della natura, della filosofia, della linguistica, seguaci del pensiero illuminista ed alcuni anche di idee framassoniche. Oggi le opere del Caucig si trovano per la maggior parte in Austria (tra cui circa 2000 disegni), nella repubblica Ceca, in Italia (Gorizia, Imola), Ungheria, Germania, Slovacchia, Slovenia, Serbia e negli Stati Uniti d’America.
Il dipinto, per dimensioni una delle più grandi opere del Caucig, è un degno complemento della pittura europea del secondo decennio del XIX secolo e una testimonianza del talento dell’artista, che aveva studiato in un centro internazionale qual’era la Roma degli anni ’80 del Settecento ed era stato per anni professore dell’Accademia di Vienna. Il tema e l’esecuzione del dipinto sono un documento storico e spirituale dell’arte, della vita e del pensiero di alcune personalità europee che non si sono arrese a quella parte del mondo già allora banale e violenta.
Ksenija Rozman, Stefano Grandesso
Bibliografia:
Fr(anz) H(einrich) B(oeckh), Kunst, Wanderung in die Ateliers hiesiger Künstler, in: Joseph Hormayr, Archiv für Geschichte, Statistik und Kunst, XVI, n. 45, Wien 15.4.1825, p. 328.
Ignaz Kollmann , Triest und seine Umgebung (Trieste ed i suoi dintorni), Agram (Zagabria) 1807,
Neue Annalen der Literatur, Inteligenzblatt des österreichischen Kaiserthums Oesterreich, 1, agosto 1807, Wien 1807, pp. 94-95; Constant von Wurzbach, Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oesterreich, Vienna 1872, pp. 117-120; Andrea Benedetti, La famiglia di Porcia a Gorizia e a Trieste, Studi Goriziani, n. 33, gennaio-giugno 1963, pp. 13-43.
Porcia 1814; 1815; 1820
Friedrich Leist, Der Königlich Bayer. Hausritterorden vom Heligen Hubertus, Bamberg 1892, p. 51; Eckart Henning, Dietrich Hertfurth, Orden und Ehrenzeichen. Handbuch der Phaleristik, Köln-Weimar-Wien 2010, p. 17.
Gustav Adolph Ackermann, Ordensbuch sämtlicher in Europa blühender und erloschener Orden und Ehrenzeichen, Annaberg 1855, p. 35.
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