| OPERA NON DISPONIBILE
Emilio Santarelli
Firenze 1801-1886
Busto François-Xavier Fabre (1766-1837) • 1820 ca.
Marmo, h. 62 cm
Il busto, opera di Emilio Santarelli, rappresenta il celebre pittore francese a lungo residente a Firenze François-Xavier Fabre. Si tratta di un secondo esemplare in marmo, ora riscoperto, che si aggiunge a quello già noto conservato a Montpellier al Musée Fabre.
Santarelli era un protegé di Fabre, che lo seguì con affettuoso interesse durante la formazione artistica, soprattutto dopo che la malattia nel 1821 aveva colpito suo padre, il celebre incisore e ceroplasta Giovanni Antonio Santarelli, effigiato dallo stesso Fabre nella tela conservata a Palazzo Pitti donata poi da Emilio.
Nel 1825 Fabre commissionò al giovane il monumento funerario alla contessa d’Albany per Santa Croce, su disegno di Charles Percier, e in seguito la statua dell’Immacolata per Montpellier, la città natale dove si era ritirato per costituire il proprio museo. Infine lo nominò suo erede universale, beneficiario dunque anche dell’eredità della d’Albany, consentendogli una vita agiata dopo il 1837 e l’opportunità di ampliare enormemente la sua collezione di disegni, donata in vita, nel 1866, da Santarelli agli Uffizi (cfr. A. Gotti, Emilio Santarelli, in “Rassegna nazionale”, IX, 1887, 35, pp. 268-285, p. 283; Silvestra Bietoletti, Santarelli, Emilio, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 90, 2017, ad vocem, con bibliografia).
Il busto di Fabre conservato a Montpellier fu donato dal pittore alla sua città nel 1825 (inv. 825-I-247), data che costituisce dunque un ante quem per la cronologia dell’opera. Anche quella versione, sfortunatamente danneggiata, non è firmata. Essa reca alcune varianti nella forma del busto, mentre coincidono i dettagli della fisionomia e della chioma. Nell’elenco allegato alla donazione non è indicato l’autore, che si trova invece specificato nell’inventario del 1828: “n. 343-Portrait de Mr ***, fait à Florence en 1820, par Emilio Santarelli, fils d’Antonio Santarelli, graveur en pierres fines, du mérite le plus distingué , et qui est mort a Florence en 1826”. Il successivo inventario Desmazes del 1838 precisa che Emilio aveva portato a termine un’opera cominciata da suo padre Giovanni Antonio (cfr. François-Xavier Fabre (1766-1837) de Florence à Montpellier, catalogo della mostra, Montpellier, Musée Fabre, a cura di Laure Pellicer, Michel Hilaire, Parigi 2008, cat. 220, pp. 412-413, con bibliografia precedente).
Secondo queste testimonianze, dunque, il ritratto del Musée Fabre risulta eseguito nel 1820 e ultimato certamente in marmo entro il 1825. È possibile che fosse stato il padre Giovanni Antonio ad iniziarlo. Tuttavia, non essendo note altre opere di scultura in grande di questo artista, appare più verosimile che il giovane Emilio si fosse basato sull’effigie di Fabre modellata dal padre in cera in miniatura, sul ritratto cioè del 1819 conservato presso il Musée Fabre (Inv.: 825.1.362).
Nonostante sia stato eseguito da un giovane artista, allievo dell’Accademia fiorentina fin dal 1814 e degli scultori Francesco Carradori e Stefano Ricci, il busto appare come un’opera matura, in un perfetto equilibrio tra fedeltà al dato naturale e idealizzazione che richiama l’austero linguaggio della ritrattistica di Bertel Thorvaldsen, volto a proiettare i suoi soggetti nella dimensione atemporale dell’ispirazione classica.
L’ideazione e l’esecuzione dell’opera di Montpellier precede il pensionato di Emilio a Roma proprio presso Thorvaldsen, di cui diventò assistente nello studio. Emilio doveva comunque già conoscere Thorvaldsen ed esempi della sua opera pervenuti in Toscana (ad esempio i lavori per i coniugi Schubart, committenti anche di Pietro Benvenuti) prima di partire per Roma, come testimonia una lettera commendatizia, inviata proprio da Benvenuti a Thorvaldsen per segnalargli i due nuovi pensionati toscani, il giovane Santarelli appunto e il pittore e futuro incisore Baldassarre Calamai:
“Latori della presente sono due Allievi di questa Accademia che vengono pensionati dalla medesima per quattro anni onde perfezionarsi in Roma nelle loro respettive Professioni. Uno di questi è il Sig.e Emilio Santarelli Scultore à voi ben noto Giovine di molto talento e di ottima volontà per lo studio. Il nostro comune Amico l’ottimo Professore Sig.re Antonio Santarelli suo Padre essendo disgraziatamente da molto tempo incommodato mi à incaricato di scrivervi e caldamente raccomandarvi questo suo figlio. Egli desidera che lo prendiate sotto la vostra particolare Direzione ed assistenza. Egli confida nel vostro ottimo carattere, e nella vostra esperimentata amicizia verso di Lui onde riposar tranquillo del buon resultato” (Copenaghen, The Thorvaldsens Museum Archive, lettera del 20 novembre del 1825, m10 1825,, nr. 8, si vedano inoltre le lettere al link: https://arkivet.thorvaldsensmuseum.dk/chronology/show/1206).
Nella stessa lettera Benvenuti fa riferimento al proprio ritratto di Thorvaldsen che attendeva ancora qualche colpo dello scalpello del maestro. L’erma semicolossale era stata modellata a Firenze nel 1813 in argilla. Era stata poi fatta formare in gesso dall’effigiato e nel 1814 fatta eseguire in marmo, probabilmente affidata non a Giovanni Antonio Santarelli come propone Else Kai Sass (Ead., Thorvaldsens Portrætbuster, Copenhagen 1963-65, Vol. I, p. 199-205), ma proprio al giovanissimo Emilio, come da ipotesi di Harald Tesan (cfr. Id., Thorvaldsen und seine Bildhauerschule in Rom, Köln Weimar Wien 1998, p. 219). L’erma fu infine collocata sul Monumento di Benvenuti realizzato da Aristodemo Costoli per San Lorenzo a Firenze.
La versione in marmo qui presentata doveva essere stata scolpita contemporaneamente all’altra, oppure durante il pensionato romano sotto Thorvaldsen, sempre per Fabre, venendo verosimilmente ereditata da Santarelli dopo la morte di questi, oppure per la contessa d’Albany, scomparsa nel 1824, o ancora tenuta dall’autore presso di sé in ricordo del suo benefattore, che i pettegolezzi dell’epoca volevano suo padre naturale.
Si tratta di un marmo raffinatissimo per la tecnica esecutiva, in grado di variare i piani del volto ottenendo mutevoli passaggi chiaroscurali, e di un ritratto vigoroso, forte di una carica morale, di un’opera rappresentativa dunque di colui che sarebbe divenuto uno dei protagonisti del Purismo toscano in scultura.
Stefano Grandesso
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