(Venezia 1892- Bassano 1978)
Autoritratto in veste di santo
1920 ca.
Tempera su cartone, 69 x 51 cm
sul verso, in un cartiglio incollato sul telaio: “Nihil nisi divinum”
Bibliografia: G. Dal Canton, N. Stringa (ed. by), Bortolo Sacchi 1892-1978, catalogo della mostra, Bassano, Palazzo Bonaguro, settembre – novembre 2000, Venezia 2000, p. 87, n.17
L’Autoritratto in veste di santo è il frutto originale di rigorose ricerche condotte dal veneziano Bortolo Sacchi. Connotato da un’elevata qualità e finitezza pittorica, il dipinto mostra lo stile del ventottenne artista già molto personale, partecipe della nuova corrente europea del Realismo magico. E’ chiaro il suo interesse per un lavoro sperimentale, lo sguardo rovesciato dentro sé stesso alla scoperta del suo ‘doppio’ (un tòpos della cultura novecentesca), condotto sul crinale sottile dell’ironia.
A incidere sulla sua crescita come pittore sono gli studi tedeschi all’Accademia di Belle Arti di Monaco (1909-1913), dove impara a guardare il “vero”. Stimolato dall’ambiente internazionale di Monaco, dove si è formato Giorgio de Chirico, una volta tornato a Venezia, Sacchi si collega alle punte più avanzate della giovane arte italiana, rappresentata dai capesarini veneziani, capeggiati da figure come Felice Casorati, e dai secessionisti romani, prendendo parte alle loro mostre. In questa fase la sua pittura è influenzata dal sintetismo di Gauguin, un interesse mediato dall’amico Gino Rossi, che soggiorna per lavoro a Parigi, e dalla presenza di alcune incisioni del maestro francese alla III Secessione romana. Risente inoltre dello stile enigmatico e decadente, dai forti tratti surreali del pittore e incisore veneto Alberto Martini, legato all’ambiente tedesco. Ma a gettare un seme nella sua ricerca devono essere stati anche certi dipinti di Casorati, caratterizzati da una realtà incrinata da profonde ambiguità e da intenzioni psicologiche dense di inquietudini.
In questo percorso artistico c’è già il personale e meditato orientamento di Sacchi verso il “ritorno all’ordine”, la nuova avanguardia diffusa in Europa ancora prima della fine della guerra. Guidato da un “dura disciplina”, si getta a capofitto nello studio di antiche ricette pittoriche, legato al carattere magico dell’operazione pittorica. Nel dopoguerra riprende a esporre in mostre importanti in Italia e nel 1920 debutta alla Biennale di Venezia, dove interverrà costantemente fino agli anni quaranta. Nello stesso periodo oltre ad Autoritratto in veste di santo, esegue Autoritratto di notte, in cui appare sul ponte di un canale veneziano avvolto dall’oscurità, il viso pallido ruotato verso sinistra, mentre lo sguardo enigmatico e distaccato si volge verso il riguardante, e un autoritratto portato in primo, che impone l’intimità di un faccia a faccia con sé stesso, gli occhi velati dalla penombra. In molti pittori di questo periodo, soprattutto italiani e tedeschi, l’autoritratto è uno specchio attraverso cui bloccare non tanto la faccia esterna, ma interna, con quel tanto di magico giocato sul tema dell’essere e dell’apparire. “Ecco allora prendere corpo, in Sacchi, un’ironica trasposizione dell’io artistico portandone alle estreme conseguenze il narcisismo. – Osserva Nico Stringa (2000, p.88) –Imbozzolata in una specie di vortice che la solleva verso l’alto, la testa aureolata del ‘santo’ si avvita su sé stessa e il collo si allunga oltre misura, in un’ascesi che e anche fisico sollevamento e letterale ‘presa in giro’ del genere ‘autoritratto’.” L’operazione artistica di Sacchi prevede una conoscenza precisa dell’arte antica e in particolare dei maestri veneti, da Mantegna a Bellini, da Carpaccio e Tintoretto, in cui scene enigmatiche e visioni miracolose sono riportate su un piano di logica e di armonia. Inoltre sul retro dell’autoritratto, l’altra faccia del dipinto, un’iscrizione in latino recita: “Nihil nisi divinum» (“Niente all’infuori del divino”), il cui significato potrebbe essere connesso al valore spirituale dell’operazione artistica. Tuttavia, l’iscrizione potrebbe essere stata estrapolata dal motto «nihil nisi divinum stabile est. Coetera fumus» (“Solo quel ch’è divino dura. I l resto è fumo”), la stessa che si legge in un cartiglio ai piedi di un drammatico San Sebastiano (1506) dipinto da Andrea Mantegna, all’epoca nella collezione veneziana di Giorgio Franchetti ma anche noto da fotografie.
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