La semplicità, si sa, è la più difficile delle arti. È il frutto di una rastremazione infinita dell’io, troppo sovente pletorico dell’artista. È il sintomo di un’ascesi silenziosa e tenace. I mobili da giardino sono per Tom Corey l’equivalente delle ninfee di Monet: un attraente enigma infinitamente interrogato.
In anni di studi e di esperimenti le linee delle sdraio vengono sorprese dall’artista sulla soglia dell’astrazione. Vengono fotografate in quella zona sottilissima in cui l’oggetto sta per trasformarsi in linea e viceversa. Se Corey si è concentrato su queste immobili modelle è perché l’oggetto è la Sfinge del nostro tempo, lo specchio opaco in cui la modernità cerca di riconoscersi. I vasi arancione di Tom traducono un rebus trasfigurato da una luce segreta che scaturisce dall’interno. I prati ben tosati assumono la docili matericità della moquette. Le ombre delle sedie pieghevoli disegnano scheletri d’ombra. Quelle delle foglie ricamano le impronte del sole.
Ma proprio al vertice della sua esplosione il colore sfiora la rinuncia e l’esultanza delle tinte accenna, nel movimento di una trottola virtuale, all’insidia sempre in agguato del grigio. La natura è decisamente ai margini delle tele di Corey, ridotta a timido motivo decorativo, tremulo sfondo o terra muta come quella dei vasi. Solo in un caso dal cilindro di terracotta sbucano due esigue piantine come i piccioni dal cilindro del prestigiatore. Su tutto trionfa la luce, una luminosità calda e affettuosa che ridesta gli oggetti dal sonno della materia avvolgendoLI in una complice carezza. Se nelle fiabe i giocattoli, lasciati soli, si svegliano e iniziano a muoversi, nella fiaba silenziosa di Tom Corey gli oggetti sorpresi dal suo sguardo sonnecchiano al sole, uscendo dal letargo, in attesa di svelare il mistero cubista del loro destino.
di Giuseppe Scaraffia
Senza titolo (particolare)