Profili persi
Qualche anno fa ero indeciso se restare a vivere a Roma o trasferirmi definitivamente in Francia, a Parigi. Restai a Roma. Visitai molti appartamenti vuoti (una delle occupazioni che prediligo) finché qualcuno non mi parlò di palazzo Caetani, in via delle Botteghe Oscure. Si trattava di un alloggio al secondo piano del palazzo. Cupo, scomodo, grandioso, con un gigantesco camino, sproporzionato per le serate del mite inverno romano. L’atmosfera era malinconica e ben si adeguava ad una qualche reputazione sinistra di cui quella illustre dimora godeva. Non so quale sia l’origine di questa nomea; certo è che l’antichissima famiglia -mille anni di storia- che all’inizio del secolo ventesimo contava vari rappresentanti maschi, bizzarramente si è estinta non molti anni or sono.
In quell’occasione venni però a sapere che all’ultimo piano del palazzo esisteva un altro appartamento meno importante dal punto di vista architettonico ma forse più gradevole. Chiesi così il permesso di visitarlo anche se in quell’epoca era occupato e venni ricevuto dai figli di un diplomatico che stavano finendo gli studi in Italia. La casa non era in buono stato e si capiva bene che per lunghi anni nessuno si era occupato di attendere a quegli accorgimenti che assicurano un senso di confortevole intimità. Comunque un fatto del tutto inaspettato mi fece subito intuire che prima o poi la mia vita si sarebbe svolta in quegli ambienti. Nell’ingresso campeggiava un dipinto lungo e stretto eseguito in uno stile piuttosto libero, più francese che italiano, che ricordava qua e là il fare di artisti come Raoul Dufy o, ancora di più, Albert Marquet.
Non era un capolavoro ma non gli si poteva negare un suo incanto atmosferico. Ciò che fissò subito la mia attenzione e mi convinse di avere imboccato la strada giusta era il soggetto del quadro, una veduta del giardino delle Tuileries presa dal lato che percorro da anni quando, uscendo dalla piccola casa in cui vivo a Parigi, attraverso la Senna. Il giardino è qui raffigurato come era più di mezzo secolo fa, e così lo vidi le prime volte che ci andai, giovanissimo, a metà degli anni Cinquanta: i bambini portati dalle nurses con la mantellina, la grande fontana circolare nel mezzo del parterre, il chiosco dei giornali non più esistente e in fondo l’arco del Carrousel, le statue fra le quinte.
Casuale o causale? Sta di fatto che nonostante l’aspetto mesto di quell’interno, le piante disidratate sul terrazzo, la banalità con cui tutto era disposto, non mi restò alcun dubbio: dovevo prendere possesso del luogo. Così fu. E non molti mesi dopo eccomi arrivare a Botteghe Oscure (nome che mi era ben noto da anni perché avevo diversi numeri della famosa rivista patrocinata da Marguerite Caetani e diretta da un mio vecchio conoscente, Giorgio Bassani). Durante i non pochi adattamenti, che consistettero soprattutto nel trovare posto alle migliaia di volumi che mi accompagnano, ritrovai alcuni avanzi di chi aveva vissuto in quelle stesse stanze. Venni a sapere che si trattava dell’ultimo o del penultimo membro della famiglia, Lelia Caetani, e del suo consorte, Hubert Howard.
Lelia Caetani al cavalletto, Ninfa 1955 circa
Il dipinto che mi aveva commosso più che ammirato nella mia prima visita non era firmato; mi si disse che era opera di Lelia. Chiesi di tenerlo in casa come talismano o, meglio, come omaggio alle persone che avevano abitato quel luogo prima di me. In una sorta di serra sistemata sul terrazzo c’erano ancora molti utensili da giardinaggio -un annaffiatoio di un modello che non esiste più, palette, forbici arrugginite con le loro fodere sfilacciate, contenitori di peltro per i fiori, persino vecchie buste di semi acquistati in Inghilterra e mai piantati. In una stanza utilizzata prima come stireria giacevano invece vecchie valigie con le iniziali dei Caetani e degli Howard, cappelli di Panama, una racchetta da tennis Spaulding, un misurino per calcolare il peso specifico del latte e vari vestiti architettati (è il caso di dirlo) in pesantissimi panni di lana come si portavano prima della guerra, quando le case erano poco riscaldate. Si trattava di indumenti eseguiti da un grande sarto da uomo con l’etichetta di Maldane, Pugg and Binnie- 2 Cork Street, Bond Street W, datata 13 giugno 1923, e a penna il nome del proprietario, His Excellency Sir Esmey Howard K B… Costui era il padre, ambasciatore, di Hubert Howard. Il vestito era un capolavoro e nonostante fosse destinato ad un uomo alto dalle lunghe gambe è ora indossato devotamente da un mio amico non privo di snobismo -non capita a tutti di possedere un vestito indistruttibile vecchio di quasi ottant’anni (inoltre completato il giorno di nascita della madre dell’attuale proprietario).
Tutti questi curiosi fatterelli non fecero che confermare le misteriose voci che aleggiavano sul palazzo, anche se il sole e l’aria che inondavano le mie nuove stanze sembravano oscurarle. Del resto alcuni passi delle Memorie di Vittoria Colonna di Sermoneta accennano sia all’eccentricità di quella brillante famiglia (la Colonna si era sposata nel 1901 con Don Leone Caetani, celebre islamista) sia all’atmosfera del palazzo nel quale visse diciassette anni: “entrando in quel portone di via delle Botteghe Oscure mi si gelò il cuore. Un enorme portiere barbuto dall’aspetto lugubre fungeva da cerbero. Inciampai nelle scale e mi sentii oppressa dall’oscurità”. Quella donna, che molti ricordano con simpatia, si dimostra civile ma superficiale in quanto scrive, assai diversa dal marito che fu uomo di grande erudizione e di originale visione politica. Lei, comunque, non mutò idee e come accadde a molte signore finì per scrivere, almeno sulla carta, come il marito fosse d’accordo con lei. Era appena morto, nel 1917, il vecchio Duca di Sermoneta: “mio marito ed io decidemmo in quel tempo di cercare un’altra dimora a Roma, avendo una comune antipatia per il sepolcrale palazzo Caetani, al quale, del resto, non eravamo legati da nessuna tradizione di famiglia; i Caetani vi abitavano solo da un secolo. L’antica loro dimora era l’odierno palazzo Ruspoli al Corso; ma nel Medio Evo e nel Rinascimento i Caetani non vissero a Roma e rimasero nei loro vasti possedimenti intorno al paese di Sermoneta”.
Le cose non dovettero essere veramente così: in quello stesso anno il Duca ebbe una figlia da Ofelia Fabiani che, in quegli anni, gli era impossibile sposare e così inviò Donna Vittoria e il figlio malato che da lei aveva avuto, a palazzo Orsini che acquistò, mentre lui stesso si trasferì in un villino sul Gianicolo per alcuni anni. Dopo l’avvento del fascismo, essendo membro della sinistra parlamentare, donò ai Lincei la sua impareggiabile biblioteca di studi islamici, alla quale aveva dedicato gran parte della propria vita. Nel 1927 si trasferì in Canada, assieme alla figlia. Vi morì pochi anni dopo, impoverito da una serie di speculazioni inopinate nonostante le sue inaudite ricchezze. Anche l’esistenza della figlia, Sveva Caetani, non fu lieta. Rimasta nubile, pittrice in tarda età (a dire il vero, forse non di particolari lumi) resta pressoché sconosciuta. Fu l’ultima a morire dell’intero casato nel 1994.
Quanto dico non certo contribuisce a sfatare la reputazione malinconica del palazzo. Soprattutto quando ricordiamo che il terzo fratello di Leone, Livio, morì durante la guerra nel 1915; il quarto, Gelasio, il solo della famiglia che si iscrisse al Fascio, non si sposò mai; il quinto, Michelangelo, era malaticcio ed ebbe solo una figlia femmina senza discendenza mentre il secondo, Roffredo, che ereditò tutti i titoli, fu padre di Lelia e di Camillo ma Camillo morì poco più che ventenne i primi giorni della guerra nel 1940.
Molti anni più tardi fu Colette Montanelli a raccontarmi alcune dicerie risalenti al tempo in cui gli zii di Lelia, Gelasio (ambasciatore e autore di un ponderoso trattato in vari volumi sulla famiglia, Domus Caietana) e Michelangelo le facevano la corte, ricevendola assieme ad altri parenti in stanze poco illuminate per arrivare alle quali si attraversavano corridoi dove si intravedevano strane ombre e si sentivano rumori inquietanti. Nulla di preciso, aggiunse, “Gelasio era un uomo affascinante anche se infinitamente più grande di me” (era nato nel 1877, Michelangelo nel 1890, Colette nel 1912).
Via via che leggo, un po’ ovunque, quel nulla che si è scritto su Lelia Caetani e sulla sua pittura mi viene da pensare che lei stessa sia stata per i suoi amici un volto di scorcio o, per dirla più poeticamente, un profil perdu: sarebbe meglio chiamarlo un profilo perso? Avrei potuto conoscerla a Roma ma così non avvenne mentre incontrai più volte il suo vedovo, Hubert Howard. Anche lui mi apparve un ritratto sfumato. Cortese, civile, inafferrabile. Mi sono così fatto l’idea che questi stranieri travestiti da italiani o, piuttosto, questi italiani (lo erano solo in parte) che pensavano e vestivano all’inglese, avevano un che di poco umano. L’idea non è solo mia se James Lees-Milne, il ben noto diarista, così scriveva il 3 maggio 1972 (a Lelia non restavano cinque anni di vita): “Gli Howard sono stati qui a colazione lunedì. Alvilde si è data da fare per preparare una degna accoglienza che ricambiasse i loro frequenti inviti a Ninfa e per rendere presentabile il nostro giardino… Lelia Caetani ha un aspetto nobile, bello e gentile ma nello stesso tempo è rigida e fredda nella conversazione a causa della sua timidezza. È diffidente. Non si fa chiamare Principessa Caetani ma Mrs Howard e in Italia ci si rivolge a lei appellandola Donna Lelia. Hubert è un uomo di vasti interessi e di grandi letture ed ha un buon senso dell’umore, di facile approccio e pieno di charme. Ma sono sempre in guardia con queste vecchie famiglie cattoliche [gli Howard, imparentati coi Duchi di Norfolk, sono da sempre cattolici] perché, nonostante l’apparente tolleranza e la garbata ironia sui principi altrui, sotto sotto sono très dévots e niente, veramente niente al mondo per un solo minuto li convincerà a concederti la possibilità di considerarli come il resto dell’umanità. Hanno una sottile e ben radicata arroganza che compare grattando appena in superfìcie. Ma io amo molto Hubie Howard. Quieto, gentile, un vero signore”.
Lelia Caetani di Sermoneta (questo era il suo nome completo), parte di una delle tre grandi famiglie feudali di Roma (anzi del Lazio, come specificava suo zio Leone) i Colonna, gli Orsini e, appunto, i Caetani, nacque a Parigi nel 1913, figlia di Roffredo e di una dama americana della vecchia aristocrazia del nuovo mondo, Marguerite Chapin. Fu costei, così come Don Leone, a tenere alta per due generazioni la fama culturale degli antichi patrizi. Leone si interessò con genialità all’Islam e alla politica, all’erudizione e alla storia. Marguerite (e un po’ meno Roffredo, tentato piuttosto dalla musica) era invece attratta dalla letteratura, dalla poesia. Non tanto in prima persona ma sotto una veste assai più rara, quella del mecenate. Giunse a fare di più, ad imporre un gusto, non creato da lei ma protetto, divulgato. Se si pensa che la squisita rivista che produsse a Parigi, Commerce (durata dal 1924 al 1932) era costruita da Claudel, St. John Perse, Aragon, Ungaretti, Breton, Faulkner, Virginia Woolf, James Joyce (del cui Ulysses vi si tradussero alcuni frammenti da Valéry Larbaud, così come i testi di Lorca lo furono da Supervielle), Paul Valéry e persino da suo cugino T. S. Eliot, si capirà quanto poco abbia da spartire la portata europea dei Caetani con la modesta Italia fascista.
Nel 1932 la famiglia rientra a Botteghe Oscure dove li aspettano anni mesti, date le circostanze politiche che non erano affatto propizie e che videro la morte di persone amate, soprattutto quella tragica del figlio. Nei primi anni Lelia continuò ancora, a Parigi, frequentazioni importanti che includevano pittori di classe come André Derain e come Balthus -ambedue la ritrassero in più occasioni. Non ha molto più di vent’anni ma raggiunge una professionalità non preoccupata dal dettaglio, spontanea, più architettonica che ornamentale: da allora il meglio della sua pittura. Il colore è parco, poco screziato; per lei contano più masse, volumi, distanze. La sua vena più intensa si espleta nelle vedute di città (Parigi e Venezia soprattutto) e, a mio modo di vedere, nei pochissimi ritratti che conosco. Vivendo nell’epicentro intellettuale, non le manca mai cultura (anche pittorica: era anche amica di Vuillard, ad esempio). Col tempo, la sua natura diviene esangue, assente. I tre lustri che la separano dalla fine della guerra lasciano, a quanto sia dato indovinare, una ritrosia sempre più palese e il suo fare si complica, i colori perdono naturalezza persino quelli, amati, dei fiori. Eppure avrà certamente allora inteso il linguaggio delicato di Filippo de Pisis col quale ha qualche punto in comune. Il suo distacco non la aiuta nemmeno ad interessarsi all’ultima rivista di Marguerite, Botteghe Oscure (1948-1960) che contribuì ancor più di Commerce alla rinascita dell’Italia libera. Si trattava della miglior rivista dell’epoca, dove fu dato a conoscere, per fare un esempio solo, Dylan Thomas. In questi ultimi anni (fino al 1963, quando la madre morì) le energie di Lelia si dedicano tutte a Ninfa, nella cerchia delle mura scrostate di quelle romantiche rovine medievali: qui, come scrisse, Iris Origo “Marguerite e sua figlia piantarono un giardino di una bellezza incantata e malinconica”.
di Alvar González-Palacios
Lelia Caetani Howard, pittrice
Personalità complessa quella della principessa Lelia Caetani Howard, ultimo ramoscello di quella grande quercia che era stata la famiglia Caetani di Sermoneta.
Aveva una nonna inglese e una madre americana ed era dunque un incrocio anglo-italiano di cui conservò tutta la vita le caratteristiche. Personaggio delicato e forte insieme possedeva in egual misura una buona dose di scetticismo romano ed insieme di sense of humour britannico. La sua storia come pittrice è ancora tutta da scrivere. Forse proprio a causa della sua riservatezza e di quel tipo di educazione che impone la regola di non prendersi sul serio. Eppure i suoi quadri sono stati esposti a Parigi nel 1933 alla Galerie Marcel, nel 1934 alla Galerie Leon Marseille, presentati da Eduard Vuillard e ancora, nel 1934 e 1937, da Dunoyer de Segonzac che la descrisse come un’adolescente silenziosa. Nel 1948 espone alla Galerie André Weil, e poi in Inghilterra da René Char e da Kathleen Raine. Nel 1954 è a New York alla Hugo Gallery. A Roma tiene tre personali (1937, 1955 e 1958) alla Galleria dell’Obelisco di Gasparo Dal Corso e Irene Brin. Irene Brin e Dal Corso, troppo noti per parlarne, furono maestri mai più raggiunti nello scoprire talenti inconsueti o inclinazioni artistiche bizzarre, genialità sconosciute.
Lelia Caetani è una pittrice oggettiva, con una sensibilità classica e rispettosa del suo soggetto. Forse solo nella sua pittura riuscì ad esprimersi senza timidezza. Dipingeva così come lei era, rappresentando il mondo visibile che le stava intorno in tutto il suo decoro e la sua apparente semplicità. Apparente perché Lelia fu sempre un’artista misteriosa e un po’ segreta.
Quelle che oggi si presentano sembrano forse vedute normali di città e paesaggi comuni, come villa Borghese, o la Senna e l’abside di Notre Dame, piazza San Marco o il canal Grande. O i tetti romani visti dalla terrazza del palazzo Caetani in via delle Botteghe Oscure. O ancora i fiori del giardino di Ninfa. Eppure in queste vedute di luoghi di frequentazione consueta, del suo mondo di tutti i giorni, Lelia infonde qualcosa di nuovo, di inesplicabilmente misterioso e certo di non comune. Del resto tutta la sua storia non è comune.
Lelia nasce a Parigi nel 1913, prima figlia di Roffredo Caetani e di Marguerite Chapin. Il padre musicista, la madre un’intellettuale americana. A villa Romaine a Versailles, la residenza dei genitori, Lelia, fin da bambina disegnava solitaria nella sua stanza. Marguerite, la celebre principessa di Bassiano, cugina di T. Eliot, con suo marito riuniva a villa Romaine amici e letterati, musicisti e pittori. Americana determinata e più che risoluta, Marguerite vi fondò la rivista Commerce e il cui titolo stava a significare “Commerce d’esprit”: pubblicò nel primo quaderno frammenti inediti dell’Ulysse di James Joyce e più spesso scritti di Léon Paul Fargue, Valéry Larbaud e Saint John Perse. Una società letteraria ben precisa dunque che fu anche l’origine di un giardino letterario, dove più tardi Lelia quietamente avrebbe sviluppato una pittura di estrema semplicità ma di sofisticata sapienza.
Vuillard le fu amico ma non maestro, mentre forse fu decisiva l’esperienza delle opere di Vallotton, di Bonnard e degli ultimi post-impressionisti. Frequentava Balthus che, in una lettera ad Antoinette de Watteville, parlando del dipinto da lui eseguito nel 1935 Giovane donna in un parco, cioè Lelia Caetani raffigurata in piedi nei giardini degli Champs-Elysées nelle vicinanze della residenza di famiglia, la descrive come “una spilungona, molto più alta di me, poco aggraziata ma dal viso non privo di un certo stile, abbastanza sedicesimo secolo italiano”.
Balthus, Ritratto di Lelia Caetani, 1938, collezione privata
Lelia era ben consapevole dell’importanza della sua famiglia e della sua storia. Anche se a Roma, quando vi arrivò nel 1932, visse una vita relativamente emarginata dalla buona società della capitale: la spiegazione è semplice, i Caetani erano antifascisti. Antifascisti ma buoni cittadini, l’unico maschio ed erede della famiglia, Camillo morì nel 1940 in guerra nei cieli dell’Albania facendo il suo dovere. Lelia, sposò nel 1951 The Hon. Hubert Howard, figlio di una nobildonna romana Isabella Giustiniani Bandini e di Sir Esmey Howard di Penrith, dei duchi di Norfolk. E i Norfolk sono la prima famiglia cattolica dell’aristocrazia britannica, nota fina dai tempi della sua opposizione a Enrico VIII. Da questa unione non nacquero eredi. Ma nacquero e resistono tuttora fervide e attive le due fondazioni alle quali Lelia lascerà ogni suo avere: la Fondazione Roffredo Caetani che si occupa del castello e del suo giardino a Ninfa e la Camillo Caetani che ha sede nel palazzo di via delle Botteghe Oscure. Come ricorda una sua amica più giovane ma intima per antiche consuetudini familiari, Desideria Pasolini dall’Onda, mentre Marguerite fondava a Roma la rivista Botteghe Oscure, che sarà diretta da Giorgio Bassani e intorno alla quale gravitavano Elena Croce e Antonio Cederna, Lelia e Hubert erano circondati da altri amici anche più giovani e forse diversi, come Gino Magnani, esteta e musicologo, Cesare Brandi, Giovanni Urbani. Nel loro appartamento nell’attico del palazzo di Botteghe Oscure, pieno di luce e di sole, discutevano animatamente indignati delle devastazioni subite dal patrimonio artistico e dal paesaggio italiano, che un pubblico indifferente e una classe politica inadeguata non rilevava. Nacque così Italia Nostra, ma questa è un’altra storia.
Lelia in questa atmosfera effervescente e rumorosa ascoltava silenziosa, ascoltava e dipingeva. Non ebbe mai uno studio, e in questo particolare c’è tutta la sua volontà di understatement: a Roma dipingeva in terrazza o nel soggiorno a cui si riferisce per esempio il n. 19 del catalogo (e del riconoscimento siamo grati a Lauro Marchetti oggi attento responsabile di Ninfa e del suo giardino) e a Ninfa nel grande salone a piano terra aperto al giardino alla luce ai colori. Lontano i monti Lepini fanno da sfondo. Lelia seduta davanti al cavalletto, sistemata accanto ad una finestra volta a ponente, lavorava tranquilla. Preparava da sola la sua tela, da vera artigiana professionista. Dall’album dove annotava appunti e schizzi, immersa totalmente nel suo lavoro trasferiva particolari e trasformava le idee in immagini concrete. In pittura. Il grande, affascinante salone di Ninfa è l’unico arredato con mobili d’epoca, il resto della casa è di una semplicità assoluta, tutta la mobilia è verniciata in grigio e bianco, ogni angolo riflette un programma preciso: non parlate di me. Il salone, era una sorta di cantiere silenzioso, dove Marguerite leggeva manoscritti o scriveva, Roffredo componeva la sua musica, Hubert lavorava al suo tavolo, Lelia dipingeva. Il silenzio era interrotto, e non sempre, dalla musica di Roffredo.
Forse un’atmosfera analoga nel ‘900 la possiamo trovare nel lavoro di Vanessa Bell, la sorella di Virginia Woolf che lavorava nella sua casa di campagna di Charleston, circondata da Lytton Strachey, da J. M. Keynes e da altri sodali del gruppo di Bloomsbury, la fronda aristocratica e liberale della upper class britannica. Quelli di Lelia come quelli di Vanessa sono dipinti senza tempo che possiedono il garbo e la lievità di una pittura finissima. Virginia in Scene di Londra dice dei dipinti di Vanessa “possiedono la facoltà di installarsi in una casa in maniera appropriata, di creare talvolta, sedia, tenda e tappeto a propria immagine e somiglianza”. In Lelia questa facoltà era innata.
di Bianca Riccio
Lelia Caetani Howard, giardiniera
Nella vita di Lelia Caetani tutto ci riporta Oltremanica o, comunque, nel mondo anglosassone. La madre, Marguerite, americana, il marito Hubert, figlio di un diplomatico britannico, i lunghi soggiorni in Inghilterra, che di solito cominciavano all’inizio di luglio e terminavano alla fine di ottobre, il taglio formale del giardino ispirato al modello paesaggistico, le letture quasi tutte in lingua inglese. E perfino il suo livre de chevet, rimasto nella casa di Ninfa, su una consolle della camera da letto: il Garden Book di Vita Sackeville West rilegato in una carta a fiori dalle tinte tenui e delicate.
Tutto ci riconduce là. Eppure, se immaginiamo Lelia, intenta al suo lavoro tra i ruderi di Ninfa o accanto al cavalletto che inventa il suo giardino e lo dipinge, prima di realizzarlo, i ricordi che ci salgono alla mente non sono quelli delle grandi giardiniere inglesi, maestre nella loro arte, come una Geltrude Jekill, una Vita Sackeville West, o anche una Penelope Hobhouse. Il pensiero corre piuttosto a quell’incantevole figura femminile che è la Charlotte goethiana de Le affinità elettive. Simbolo vivente del dilettantismo romantico attorno al quale si discusse a lungo negli anni fra il Sette e l’Ottocento, che Schiller definì in un suo scritto e che Goethe teorizzò proprio parlando di Charlotte.
Un dilettantismo appassionato che cercò di interpretare e riprodurre il giardino pittoresco degli inglesi. Ma con il cuore più che con la mente. “Per costoro”, dice nel romanzo il Capitano, professionista nella tecnica del giardinaggio, “l’operare è più importante dell’opera”.
E per Lelia, che detestava le potature che mutilano le piante e modificò il percorso di un sentiero per non tagliare il ramo di una magnolia, quello che contava non era tanto lo schema del giardino quanto piuttosto il rapporto personale con le piante, il rispetto affettuoso per un albero. Anche se, subentrata alla madre nella cura del parco di Ninfa, non esitò a far abbattere una fila di salici piangenti allineati lungo il fiume per sostituirli con piante acquatiche, fra le quali alcuni splendidi esemplari di gunnea scabra et manicata.
Ma a questo punto faremmo un torto a Lelia Caetani se non ascoltassimo il parere di Giuppi Pietromarchi, autentica giardiniera che su Ninfa e su i Caetani ha condotto un’accurata ricerca e pubblicato un saggio. Dice: “Quando per anni si segue la persona che ‘conduce’ il giardino, si possono approvare o meno alcune decisioni, ma di più non si può fare. Il giardino appartiene a chi lo ha creato: direi che il possesso del proprio giardino è un sentimento molto forte, quasi assoluto. Ricordo mio padre nel suo giardino: non accettava consigli e tanto meno critiche. Lelia Caetani è stata l’ombra di sua madre per molti anni, ha imparato, ha acquistato la conoscenza del portamento e del comportamento delle piante. Il giorno in cui ha deciso il taglio dei salici piangenti lungo il fiume, non è stata una sorpresa. Immagino che nella sua mente questa decisione sia andata maturando a lungo. Semplicemente il suo occhio nel giardino era diverso da quello di sua madre”. Senza dubbio. Il giardino che Marguerite amava era “forte”, selvaggio, un po’ rude, Lelia invece preferiva colori delicati, soffusi, come del resto nella pittura, ed evitava i forti contrasti. Piantò attorno ai ruderi molte clematidi e rose.
A. Derain, Ritratto di Lelia Caetani, Fondazione Camillo Caetani, Roma
Ma quali furono le vere innovazioni che introdusse quando prese il posto della madre? È ancora Giuppi Pietromarchi che risponde: “La grande passione di Lelia è stato ‘II Colletto’, una zona del giardino piuttosto lontana dalla casa ai piedi della chiesa di San Biagio, dove creò il rock garden come se fosse un tappeto a piccolo punto. Prima lo dipinse sulla tela e poi mise a dimora le piante scelte con grande conoscenza sapendo esattamente quanto posto avrebbero occupato e quale tono di colore avrebbero avuto. Un ricamo vegetale”.
È vero che Lelia creò il “suo” giardino roccioso e lo curò con passione per anni. Ma questo angolo inventato da lei, così particolare e diverso da tutto il resto, come si colloca nell’insieme del giardino, che ha un taglio naturalmente paesaggistico con i ruderi che lo punteggiano, il fiume, i ponticelli, gli alberi di alto fusto?
Giuppi non trova contraddittorie le due cose. “Il rock garden si colloca nell’insieme del giardino come il derivato di una vera passione per le piante piccole e maneggevoli, come uno studio di colori che serviva a Lelia sia per la pittura sia per il giardino. Una creazione totalmente inventata da lei, come se avesse voluto, nell’area del grande e maestoso giardino dall’ossatura molto maschile voluta dallo zio Gelasio, fratello del padre, ritagliarsi un proprio spazio intimo e privato”.
Da giardiniera professionista, qual’è, come giudica Giuppi il giardino di Lelia? “Per me giudicare un giardino è molto naturale: il giardino o trasmette un messaggio o è muto, vale a dire senza significato. Leggere e ascoltare un giardino è, forse, tra le più grandi emozioni. Ninfa trasmette anche troppo. Le piante secondo la loro disposizione, secondo la loro forma, hanno assunto una personalità quasi umana, sono depositarle di messaggi che trasmettono a chi sa ascoltare. Certamente vi è in questo giardino, oltre al mistero, l’armonia tra estetica, botanica e passione”.
A Ninfa nel salone centrale al primo piano, quello con le grandi capriate, le bifore aperte sul giardino e il caminetto d’angolo, c’è un quadro di Lelia, un rettangolo stretto e sviluppato in altezza. È una veduta del giardino dal ponte di legno in direzione della collina: al centro spiccano due macchie rosse, due prunus, a lato una striscia verticale verde, un cipresso. Quelle piante, quando Lelia lo dipinse, non c’erano, ma lei sentì che occorrevano per creare un equilibrio cromatico e le inserì nel quadro. Poi le comperò e le fece piantare nei punti che aveva indicato. “Pittrice e giardiniera”: aspetti intimamente connessi di una personalità unica.
di Luigi Bianchi