Se ripenso alle visite alla pittrice ferrarese Mimì Quilici Buzzacchi, che viveva in una casa al penultimo piano di un palazzo di fronte al Tevere e a Monte Mario, un particolare mi ritorna indietro: lo sguardo sognatore con cui osservava quel lembo di paesaggio, che chiamava la sua “piccola Valle Padana”. La pittrice, ormai ultraottantenne, nel suo immaginario aveva sovrapposto al paesaggio tiberino, le terre basse del Delta del Po, abbandonate dopo la scomparsa del marito Nello Quilici nel famigerato incidente aereo che uccise anche Italo Balbo. Mimì mi mostrava uno a uno i suoi lavori e le opere di altri pittori, tra cui una tela di Edita Broglio, che le piaceva per la pittura adamantina come quella degli antichi maestri ferraresi, e numerose opere del novecentista Achille Funi. Mi narrava dell’amicizia con il pittore, anch’egli di origine ferrarese, ospite per lunghi periodi nella loro casa in viale Cavour, quando, tra il ’34 e il ‘37 nel Municipio della città, realizzò uno dei suoi più noti cicli di affreschi, il Mito di Ferrara. Avevano convertito in studio il “granaio”, come chiamavano in famiglia il terzo piano della casa, mutuando il termine dalla casa di campagna. Tra i numerosi cartoni ricevuti in dono, mi spiegò che c’erano anche i disegni preparatori dei mesi dell’anno.
L’impresa murale fu opera di un manipolo di uomini animati dalla volontà di far tornare la loro città ai fasti rinascimentali. La committenza venne da Italo Balbo, che in quegli anni aveva portato a compimento la sua trasformazione da capo facinoroso a uomo di stato e a eroe del cielo, con la mitica trasvolata atlantica nell’estate del ’33. Un sogno perseguito anche sul piano intellettuale, tra le altre cose, scrivendo un saggio sul volo di Astolfo, in occasione delle prime celebrazioni ariostesche a Ferrara (’30). Il programma iconografico dell’affresco fu invece elaborato da Funi con l’ex-vociano Nello Quilici e il cenacolo di intellettuali riunito intorno al “Corriere Padano”, di cui Quilici era il direttore. Questi dirigeva, con Giulio Colamarino, anche la rivista “Nuovi problemi di politica, storia ed economia”, roccaforte di una delle linee di pensiero più illuminate del corporativismo statale. Tra questo manipolo di uomini c’era anche il podestà Renzo Ravenna, legato alla comunità ebraica.
La commissione del ciclo ferrarese giungeva ad Achille Funi nel momento in cui, compiuto il suo percorso da pittore di orbita futurista a esponente di punta del Novecento Italiano, aveva poi maturato la vocazione murale, fornendone prova nelle due ultime edizioni della Triennale milanese (’30 e ’33) e nella Mostra della Rivoluzione Fascista (’32). I valori sociali di cui si faceva portatrice la sua pittura murale trovavano piena soddisfazione nella sede del Palazzo Comunale di Ferrara, principale residenza della corte estense, e ora recuperata dal governo fascista. Il tono eroico della pittura fu improntato alla solenne retorica carducciana dell’Ode a Ferrara e di altre opere, coltivata con passione dal giovane Balbo. Sulle pareti est e ovest della Sala della Consulta, Funi delineò le figure statuarie di Mercurio, Apollo, Ercole e Marte e la scena di San Giorgio e il drago. Sulla parete sud illustrò i momenti salienti dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata. Accanto alla porta d’ingresso, come era uso nella pittura rinascimentale, il pittore, novello Ariosto, si ritrasse nelle vesti di un paladino alle prese con i miti di tutti i tempi. Dietro di lui, Orlando, furioso e seminudo, scala una montagna. In alto vola Astolfo a cavallo dell’Ippogrifo per raggiungere la luna. Gerusalemme, come in un capriccio mantegnesco, esibisce i monumenti della Roma antica. Il drappello di crociati cita brani della pittura quattrocentesca, mediati dal cantore metafisico di Ferrara, Giorgio de Chirico. I loro volti immortalano i protagonisti della nuova rinascenza ferrarese, da Nello Quilici all’avvocato Alberto Boari, circondati dai loro parenti e dalle persone con le quali Funi condivideva la sua quotidianità. Il Mito di Ferrara si conclude sulla parete nord con la Caduta di Fetonte che, con il carro del sole, precipita sul Po, e la tragedia di Ugo e Parisina d’Este. Come scrisse Guido Piovene, queste due scene appaiono ammantate di una cupa atmosfera “negromantica”. Del resto tutta la storia della città sembra nascere dal continuo intreccio di una dimensione sdoppiata, come scrisse Nello Quilici, spiegando il programma iconografico dell’affresco: “Antichità classica e gesta cristiane; epos e idillio; anima e senso; amore e morte; trasfigurazione di geometria terrestre in armonia ideale, del senso in estasi, del molteplice in unità; mito che diventa realtà, realtà che si trasforma in mito: ecco Ferrara.”
Conclusione dell’epopea raccontata sulle pareti, fu l’esecuzione del soffitto, che al tono affabulatorio e dinamico della zona sottostante oppone uno stile essenziale e contemplativo, che si avvale di un tempo sospeso. Funi vi impiegò toni chiari, a rammentare la luce della terra ferrarese ricca di acque. Cerniera tra la decorazione del soffitto e quella delle pareti fu la raffigurazione allegorica dei dodici mesi. Sul fondo giallo oro le figure, che seguono il ritmo delle stagioni, sono atteggiate in pose che simboleggiano i lavori della campagna. È esplicito il riferimento al Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, dove Funi sostò ore e ore cercando di studiare ogni particolare, e ai cicli duecenteschi del Museo della Cattedrale e dell’Abbazia di San Bartolo. La serie completa dei relativi disegni preparatori permette di entrare nel processo creativo dell’opera, in cui manualità e concetto si mescolano per creare una sorta di “macchina della pittura” produttrice di immagini adatte a mantenere la forte carica ideale dell’affresco.
Elemento essenziale di questa pratica fu il disegno, considerato da Funi il fondamento della nostra civiltà pittorica. Un segno duro, insistito ma nello stesso tempo essenziale, fu utilizzato dal pittore per costruire l’architettura delle figure. Dotato di un certo potere inventivo, Funi inoltre non esitò a colare nel crogiuolo della sua arte immagini prelevate dalla storia dell’arte, in un libero revival archeologico. La personificazione di Febbraio sembra citare il gesto dell’Apoxyomenos di Lisippo, ma anche la posa del Pugilatore del Museo Nazionale Romano. Marzo sembra invece rammentare l’Augusto loricato dei Musei Vaticani, e ancora, Settembre occhieggia una figura nel Ritrovamento delle tre croci negli affreschi aretini di Piero della Francesca.
Sopra la fascia dei mesi, nella stessa maniera di Palazzo Schifanoia, corre un’altra fascia con i segni zodiacali. Il programma decorativo si conclude alla sommità del soffitto, dove appare una balconata da cui si affacciano delle donne in abiti moderni, spettatrici del mondo sottostante. Il senso circolare della storia che informa tutta l’opera, si ritrova anche nello spirito tragico di un’epoca: lo sguardo rivolto alla grandezza del passato, mentre il passato con i suoi miti più audaci, Orlando, Astolfo e Fetonte punta verso l’alto, quasi a volersi saldare con la contemporaneità.
di Francesca Romana Morelli
Ottobre (particolare)