Una sera d’inverno
Sono delle trappole emotive, i disegni e le parole disegnate di Giosetta Fioroni, dei luccicanti specchietti per curiose allodole – “indizi terrestri”, diari di fatti accaduti dentro cui si infilano, senza darlo a vedere, anche fatti che è improbabile che accadano, mezze verità, mezze figure, linee dispettose che si arrestano sul limitare della forma, icone erranti, falci di luna, mazzi di stelle. Sempre con l’aria di raccontare qualcosa: una trottola deliziosa e perversa, un racconto libertino alla Vivant Denon, un winter’s tale in tempi di follia e carestia… Liberamente percorribile, però, senza gli obblighi inerenti a un logos lineare, comprensivo di un prima e di un dopo – perché inventare un mondo e raccontarlo può significare anche questo: radicarsi nell’istantaneo, dilatarne la durata con la tenerezza e l’infinita pazienza necessarie. Dentro una filosofìa “artigianale” del proprio lavoro nella quale il primo oggetto da manipolare resta sempre il tempo. Quando siamo stati qui? Ci saremo? Ci siamo?
Rue Princesse
Rue Dufour
Rue Vaugirard
E poi: Bougival, Meudon…
Se proprio qualcosa deve rivelare con certezza una figura, nei disegni dei tardi Cinquanta e dei primi Sessanta, sono i segni verbali ad assumersene il compito. Procedendo però in una direzione che non è mai poetica, ma decisamente “romanzesca”. Qui sta, io credo, un indizio importante della profonda originalità, per non dire bizzarrìa, del carattere di Giosetta Fioroni. Che fa un uso “iconico” della parola, la inserisce con pieni diritti nella trama del disegno, senza però mai darle uno spessore di carattere poetico. Sono parole, insomma, che non “risuonano”, non hanno “alone”, ma raccontano. Sono stralci di lettere, appunti, indirizzi, in seguito classificazioni. Non scavano profondità, semmai suggeriscono itinerari. Come in queste topografìe parigine, da percorrere, si immagina facilmente, ad ore insolite, e con in testa qualche proposito non proprio confessabile, qualche curiosità rischiosa. Volendo tentare la definizione più asciutta ed essenziale, il romanzesco è proprio questo – una sistematica erotizzazione degli spazi, dei nomi che li designano, di tutti i possibili andirivieni tra nomi e spazi. Si intravedono in questi fogli, insomma, una Liason Dangereuse, la miniatura di un grande “notturno” di Dumas, un Ballo del Conte d’Orgel… Non una Teoria del Mondo, ad ogni modo, ma una perpetua, circolare, lievemente ipnotica Partitura per Due Cuori, la cui connotazione fondamentale è, non ci si può ingannare, l'”impossibile”, altro ingrediente fondamentale della macchinazione romanzesca – per non parlare di quella erotica. L’impossibile come luogo mentale della gestazione dei simboli, maniera stilistica, contenuto preponderante della memoria e nello stesso tempo, in questo giardino dei sentieri che si biforcano, immagine del futuro.
Casa di Salamandra (particolare), 1974
È importante, nella maniera di raccontare di Giosetta Fioroni, anche la sua attenzione al piccolo, allo sfuggente, al difficilmente definibile. Tutto le arriva d’improvviso, a quanto pare, saltellando fino al bordo della percezione. Provoca un sentimento senza nome – che comprende in sé uno spavento e il senso di qualcosa di buffo e ancora di molto rapido. Non è catalogabile, questa maniera di percepire, nei Dizionari Ufficiali delle Emozioni. Ma guardate un’icona fissa in questi disegni, seguitela di foglio in foglio: il cuore, qui, non è mai tranquillo. Irradia un suo shining, cuore-sole o cuore-luna, oppure è lambito da un assalto di nefaste macchie nere, si inclina sul suo asse, trema, si ritrova circondato da frecce innumerevoli, sorvola il paesaggio a modo di mongolfiera, “si sbatte”, in definitiva, da mattina a sera. Dire “cuore” è la stessa cosa che dire “vento”. Vedere il mondo “con gli occhi del cuore”, come tanti antichi saggi hanno sempre consigliato, non significa essere “sentimentali”. Significa saper riconoscere l’aspetto fondamentalmente agitato, ingarbugliato, frammentato delle cose e delle emozioni che ne nascono. Anche questa incapacità del cuore di starsene tranquillo, poi, ci riporta all’erotismo, al romanzo come processo di erotizzazione del reale. Chi ama non si da mai pace. È timorosus, diceva il poeta latino. Rimescola di continuo – e non può fare altro – le carte dell’esperienza e si ritrova lui stesso facilmente perduto in mezzo al mazzo.
L'”ultimo capitolo della storia del mondo”, secondo Heinrich von Kleist, dovrà chiudere il cerchio, terminare il periplo delle illusioni, ricondurci nel seno della naturalezza originaria (Sul teatro di marionette, 1810). Quanto più nel mondo organico si fa “oscura e debole” la riflessione, tanto più “radiosa e dominante vi risalta la grazia”. Nell’opera di Giosetta Fioroni, la natura di questa grazia terminale si mostra senza ipocrisie, senza presunzioni d’innocenza. È una grazia che, come ha intuito per primo Kleist, è tale solo al termine del suo lungo viaggio nell’artificio. E della polvere dell’artificio è ricoperta anche nel momento in cui inizia a manifestarsi. Come l'”immagine dello specchio concavo” nella metafora di Kleist, che dopo essersi allontanata all’infinito, “d’improvviso ci riappare davanti vicinissima”. È, in definitiva, l’unico tipo di grazia del quale sia davvero possibile fidarsi: grazia senza teologia, senza gerarchia, senza potere. Senza dignità “intellettuale”, “indifendibile”, confinata all’orlo delle tradizioni, dei codici, degli stili. Fatto sta che questa grazia sporcata, stracciata, inseminata di esperienza e disincanto, definisce i contorni di un’utopia, è una porta aperta su un concreto altrove, su un’infanzia che rimane accessibile, un Regno Segreto, un futuro che ha l’aspetto di un’origine. Nessuna parola può descrivere questa tensione, questa energia tenera e imperiosa che si può solo sperimentare, e non appartiene completamente né allo sguardo né all’oggetto che lo sguardo insegue e abbraccia e lascia svanire. Niente di meglio, per Giosetta Fioroni, che mettersi in cerca di folletti e coboldi e spiriti silvestri, seguendo i sentieri dei vecchi contadini contaballe che possono diventare, proprio sotto i suoi passi, le linee e i diagrammi della Morfologia della fiaba di Propp. Perché le fate, se sono davvero fate, non potranno mai fare mostra di sé altro che qui, nel punto terminale della loro inesistenza, al riparo, all’ombra dell’inesistenza. E se al cuore di ogni fiaba c’è un focolare, anche là dentro brucia materia spuria. Come aveva già perfettamente capito Goffredo Parise in quell’impareggiabile esempio di saggezza e follia, di folle e preveggente saggezza, che è l’inizio del suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete, altro paragrafo notevolissimo di quell'”ultimo capitolo della storia del mondo” che è molto, molto di più di un progetto estetico: ” Questa è una sera d’inverno. Prima che il buio e il gelo arrivino nei cortili a tramontana per tutta la notte, Giorgio, Abramo e gli altri ragazzi accendono fuochi con foglie fradice, rami morti e carta raccattata nelle immondizie”. Di sicuro, non c’è commento più appropriato di queste tre righe all’opera di Giosetta Fioroni – parole scritte nel 1951 che ne raccolgono, ne profetizzano il timbro fondamentale. Questo è il nostro focolare, il luogo delle fiabe, delle emozioni e delle visioni: un calore necessario e momentaneo, un fumo di povera legna umida e spazzatura che disegna i suoi filiformi, tremanti fragments nei cortili dell’inverno.
di Emanuele Trevi