UNA NOTA PER CASTELLI PITTORE

È quasi dimenticata, la figura di Enrico Castelli. Eppure, almeno in due diversi e distanti periodi della vita, gli avvenne di essere al cuore di talune delle più significative ricerche dell’epoca. Lasciamo, in questo stesso catalogo, alle puntuali indagini di Lorenzo Canova l’acclarare quel momento, aurorale per lui ma già colmo di promesse, che lo vide interprete di vaglia della scultura del ventennio fascista: rammentando brevemente solo l’avvio di quel suo primo tempo cruciale, che coincise con il premio per la scultura ottenuto alla VII Mostra del Sindacato Belle Arti del Lazio ove, nell’aprile del 1937, tre delle sue opere (due Ritratti e una Figura) occupavano nel salone centrale dei Mercati di Traiano un posto importante, a fianco – fra gli altri – di Mafai e Pirandello, di Cagli e Ziveri, oltre che di un folto gruppo di dipinti destinati a ricordare Norberto Pazzini, morto l’anno precedente; mentre, scultori, Castelli aveva a fianco Antonietta Raphaël e Mirco Basaldella, sempre nel salone, ed Eleuterio Riccardi, assieme ad altri, nella sala XIV, ove esponeva un altro suo Ritratto.

Poi la guerra venne a frapporsi in quella felicemente avviata carriera. Giunsero, annota Castelli in un suo appunto in cui, con stringata modestia, elenca le tappe salienti del suo lavoro, anni per tutti “più aspri”, nei quali “continuare a studiare era un lusso troppo grande”, e ci si doveva “industriare per vivere”.
Pur tuttavia, seppe tornare alla scultura (forse, in privato, mai del tutto trascurata), ottenendo anche qualche incarico pubblico, nel corso dei primi anni Cinquanta. Tempo nel quale egli s’incaricò anche di fondare e gestire una stamperia d’arte, ove lavorò alla grafica di un gruppo notevole di artisti, quasi tutti romani d’adozione, fra i quali Gentilini e Maccari, Fazzini e Guttuso, Cantatore e Guarienti e ancora Burri e Rotella, Afro e Scialoja, Corpora, Birolli e Scordia (ma l’elenco degli artisti per i quali curò l’opera grafica si potrebbe facilmente integrare).

È a questi anni, distesi dunque fra sesto e settimo decennio del ‘900, e certamente in relazione con queste nuove frequentazioni, che risale una produzione di tecniche miste su carta rimasta sino ad oggi del tutto segreta e che, se accostata nel suo indubbio valore di documento, sarà preziosa ad indicare la vicenda, ricca di snodi inattesi, di un gusto in quegli anni egemone.Rarissimamente datate, queste carte si possono situare a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta; e all’interno di un corpus molto unito si possono individuare tre momenti, tre poggiature stilistiche successive.

Un primo momento è caratterizzato da un modo neo-concreto dell’immagine, realizzata da tarsie di colori puri, indeclinati all’interno dei loro campi, scevri di passaggi chiaroscurali. Soltanto talvolta (il Senza titolo n. 3, fig. 8, ad esempio: ove si distinguono con chiarezza tre nudi femminili stanti, quasi a ripercorrere il tema antico delle “tre Grazie”) una memoria figurale s’inframette nella trama astratta del colore, che par ascoltare lezioni – per star ancora soltanto ai ‘romani’ – di Accardi o di Dorazio (vedi ad esempio i Senza titolo nn. 7, 8, 9, figg. 2, 3, 6). Del neocubismo che aveva così diffusamente occupato il panorama italiano d’immediato dopoguerra, invece, non c’è traccia in Castelli: ed anche per questo è facile immaginare una datazione delle prime di queste opere in prossimità, e non prima, della metà del sesto decennio.

Successivo è un tempo in cui la figura geometrica si sfalda, privandosi del suo rigore ‘concreto’ e poggiando verso un astrattismo organico prossimo a Bram van Velde: che era allora a Roma presente a molti, e in particolare a Toti Scialoja.
Le forme sgusciano ora attraverso un colore più liquido e variato, fluttuando senza appigli in uno spazio emozionato (vedi ad esempio i felici Senza titolo nn. 12 – 15, figg. 4, 5).

A questo medesimo tempo andranno probabilmente assegnate anche quelle opere, talora memori dello Scarpitta antecedente alle bende, 1955-56, o al Corpora di fine decennio, in cui a costruire l’immagine stanno aggregazioni cromatiche che fan pensare a rocciose concrezioni materiche, percorse da un segno scavato come dal rovescio del pennello. Infine, a chiudere questo ipotetico percorso attraverso un gruppo d’opere che è comunque, lo si ripete, molto coeso, stanno le carte che porremmo all’avvio del seguente decennio, il settimo del secolo: in alcune, le forme scheggiate si incastrano, animose, e alzano la loro figura come vele a catturare il vento; in altre, corpi nuovamente geometrizzanti sono percorsi all’interno da un segno nero, profondamente inciso, talora dato con foga gestuale, che cerca sovente lo scontro con il bianco luminoso del fondo.

di Fabrizio D’Amico