Lo scultore Giovan Battista Amendola nasce a Episcopo di Sarno, nel salernitano, il 19 gennaio 1842. Dodicenne, viene avviato all’attività scultorea presso il maestro Brusciolano, per poi iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, eseguendo opere nel pieno della tradizione accademica. Nel 1866 si trasferì a Roma per entrare nella bottega di Pietro Tenerani, sebbene ben presto liquidò la lezione del famoso scultore per abbracciare le nuove tendenze veristiche professate dal suo vecchio maestro Stanislao Lista. A causa dell’aggravarsi di alcuni problemi di salute, lo scultore fu costretto a tornare a Sarno, dove eseguì la scultura rappresentante Pergolesi, in cui il giovane musicista è colto in atteggiamento malinconico, che la critica considera come il suo capolavoro (Salerno, Teatro Giuseppe Verdi). Accese polemiche suscitò invece la scultura con il gruppo di Caino e la sua donna, esposto nel 1877 all’Accademia napoletana e l’anno successivo all’Exposition Universelle di Parigi.
Spirito inquieto e vitale, lo scultore si spostò prima a Parigi nel 1878, poi a Londra dove visse per cinque anni, entrando in contatto con il pittore Alma Tadema grazie alla mediazione di Domenico Morelli. In un clima di forte riscoperta dei valori estetici e morali della classicità ellenica, in Inghilterra Amendola si calò appieno nella ricerca di forme levigate e seducenti, prive di implicazioni sociali, accrescendo la sua fama di ritrattista. Morì a Napoli il 17 dicembre 1887.
Tra gli scultori di maggior rilievo all’interno della scena naturalistica napoletana, l’arte di Amendola venne definita dall’Ojetti “d’un sensuale delicato e malinconico“, come si può apprezzare nel bronzo raffigurante un giovinetto che avanza portando in equilibrio un bastone con dei grappoli d’uva (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), assai vicino alle sperimentazioni volte ad un realismo popolare di Vincenzo Gemito. Presso la Galleria Carlo Virgilio è transitata una scultura dai tratti ancora più marcatamente sensuali, emblema di raffinato formalismo, dal titolo Venere nostra, che si specchia in una simbiosi, per altro, con le speculazioni estetiche di Walter Pater.