Tra i protagonisti e le personalità di primo piano del Neoclassicismo europeo, il pittore Gaspare Landi nacque a Piacenza il 6 gennaio 1756 in una famiglia prossima all’indigenza ma dal passato glorioso e studiò dapprincipio con il maestro D’Ottavio per poi frequentare la scuola di San Pietro. La prima formazione in campo artistico il Nostro la ricevé dai pittori Gaspare Bandini e Antonio Porcelli, iniziando a dipingere i primi santi e ritratti, ma rimanendo per un certo periodo incerto sull’intraprendere la carriera da poeta piuttosto che quella pittorica. La giovinezza dell’artista fu caratterizzata da infelicità e da eventi drammatici: abbandonato presto dal padre, che soggiornava spesso all’estero per motivi di lavoro, si sposò diciottenne in maniera avventata e dal matrimonio nacquero due figli, Alfonso, il primogenito, che morirà nel 1795, e Pier Antonio, che gli causerà infinite preoccupazioni. Fondamentale per i successivi sviluppi della vita del Landi fu l’incontro con il marchese Gian Battista Landi, che ne riconobbe le genuine doti e apprezzò fin da subito le primizie del pittore, a cominciare dall’Autoritratto (olio su tela, 1780 ca., collezione privata) e dai sei ovali eseguiti per la basilica di Santa Maria di Campagna.
Grazie ad una pensione concessagli dal marchese Landi, con il quale il pittore intratterrà una lunga e preziosa corrispondenza rimanendogli legato a vita da una sincera e affettuosa amicizia, il Nostro poté trasferirsi a Roma nel gennaio 1781, raccomandato dal mecenate alla sorella Rossane che nell’Urbe aveva sposato il conte Annibale della Somaglia ed era riuscita ad affermarsi nei più vivaci circoli intellettuali. Con siffatti appoggi il Landi riuscì ad entrare presso lo studio di Pompeo Batoni, allora l’artista più ammirato d’Europa, copiandone le accademie di nudo. Pare che il Nostro riuscisse talmente bene nell’emulare lo stile grafico del maestro che dopo alcuni mesi di pratica le copie risultassero non distinguibili rispetto agli originali, tanto che Batoni si ingelosì e smise di sostenere il Landi, che passò così allo studio di Domenico Corvi. Ma ciò che più suscitò umili sentimenti di soggezione nel giovane pittore furono le sculture greche, summa di perfezione e nobiltà, che lo animarono d’entusiasmo e di sfida emulativa, immediatamente riversata nel Prometeo (olio su tela, 1782, Monza, Museo) destinato al marchese Gian Battista come dimostrazione dei propri progressi.
Dopo un soggiorno milanese nel 1791 al servizio del principe di Belgioioso, per il quale eseguì alcuni ritratti, l’anno seguente Landi trascorse un lungo periodo a Piacenza, dove entrò in contatto con il letterato Gian Paolo Maggi, con il quale intratterrà una ricca corrispondenza, e ricevette la commissione da parte del marchese Ranuccio Anguissola di due dipinti di soggetto omerico, L’incontro di Ettore con Andromaca e Ettore rimprovera Paride (olio su tela, 1794, Piacenza, Istituto Gazzola), in merito ai quali Ippolito Pindemonte si espresse con il verso “Val la cetra d’Omero il tuo pennello“. Del 1795 è il dipinto avente per soggetto Labano con le figlie (olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna), opera che tende ad una bellezza filosofica, neoantica nel suo decoro marziale, commissionatagli dai conti Dal Verme che infine non l’acquistarono per il sopraggiungere di difficoltà economiche, comprata poi dai conti Marazzani Visconti.
Con gli sconvolgimenti che afflissero l’Italia durante gli anni delle guerre napoleoniche Landi preferì tornarsene nella sua amata Piacenza, ospite del suo “patrino” Gian Battista e al sicuro all’interno dell’illuminato circolo aristocratico della città, che lo terrà impegnato nella realizzazione di numerosi ritratti, come nel caso del superbo Ritratto del conte Giacomo Rota con il suo cane (olio su tela, 1798, Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese). Furono gli anni dell'”esilio” piacentino una parentesi assai piacevole e produttiva per il pittore, che dipinse tra le altre cose in affresco un tondo con Imeneo e Amore nella camera nuziale del palazzo del conte Federico Scotti, che nel 1829 ne redigerà la biografia, e i due quadri richiestigli dall’abate marchese Gian Maria Mandelli per la chiesa parrocchiale delle Mose rappresentanti San Giuseppe e San Giorgio, quest’ultimo dalla spiccata ascendenza secentesca, una rilettura dei celebri cavalli farnesiani del Mochi. Il Nostro fece ritorno a Roma nel maggio del 1800, ma sempre a Piacenza nel 1797 aveva iniziato a lavorare alle grandi tele rappresentanti il Seppellimento della Vergine, terminato nel 1802, e il Sepolcro trovato vuoto, ultimato due anni dopo, destinate al Duomo di Piacenza, la sua sempre cara “patria”, che lo consacrarono definitivamente come uno dei maggiori artisti su scala internazionale.
Del 1809 è l’immensa tela con La salita al Calvario per la cappella del Rosario nella chiesa piacentina di San Giovanni in Canale, realizzata in competizione col Camuccini che per la stessa sede dipinse la Presentazione di Gesù al tempio.
Poco tempo dopo il pittore venne coinvolto nella vasta e propagandistica impresa di decorazione degli appartamenti napoleonici nel Palazzo del Quirinale, realizzando i due grandi teleri con Paride visita il cantiere del Partenone e Harun el Raschid nella tenda con i sapienti dell’Oriente (olio su tela, 1813, Benevento, Museo del Sannio)
Di prim’ordine e assoluto prestigio furono anche il cursus onorum e i riconoscimenti che il Landi ricevette durante la propria carriera: nel 1802 venne accolto tra gli accademici di San Luca, ottenendo la cattedra di pittura nel 1810 e divenendone principe nel 1817; fu creato cavaliere dell’ordine di San Giuseppe dal granduca di Toscana Ferdinando III (1815), decorato del Cavalierato delle Due Sicilie dal re di Napoli e insignito dell’Ordine della Corona di Ferro da parte dell’imperatore d’Austria Francesco I (1817).
Morì a Piacenza il 28 febbraio 1830.
Considerato dai contemporanei l’alter ego di Vincenzo Camuccini, a quest’ultimo spesso paragonato e con il quale la critica volle suggerire una fittizia rivalità a discapito dell’amicizia che li legava, Landi si impose sulla scena artistica europea come l’altra faccia della medaglia del pittore romano, alfiere di un pittoricismo etereo e crepuscolare, “lombardo”. Come artista di successo votato ad un linguaggio Neoclassico già pienamente maturo il Landi riuscì ad esprimere il proprio talento nei principali generi pittorici, riuscendo nelle proprie opere a raggiungere qualità tecnico-formali sempre assai sostenute. Già nei primi capi d’opera di soggetto mitologico realizzati durante i primi anni romani il pittore fu in grado di utilizzare con profitto le numerose suggestioni derivategli dal contatto diretto con la statuaria antica, come testimoniato dal dipinto rappresentante Il ratto del Palladio (olio su tela, 1783, Parma, Galleria Nazionale), con il quale Landi vinse il primo premio del concorso internazionale bandito dall’Accademia Reale di Belle Arti di Parma nel 1783; opera straordinaria per rigore formale e per i sulfurei valori tonali, che si accendono in crepitanti bagliori.
Sebbene con un pizzico d’altezzosità di facciata, magari in verità neanche troppo sentita, considerasse il genere del ritratto inferiore e “umiliante” rispetto alla più nobile pittura di storia, il Landi fu un ritrattista prolifico e assai apprezzato; ed anzi la sua opera in tal senso risultò di fondamentale importanza per la definizione di un nuovo canone estetico. Si osservi ad esempio il Ritratto di Bianca Milesi (olio su tela, 1811 ca.) transitato presso la nostra Galleria, nel quale possono apprezzarsi nella loro qualità più superlativa i tratti distintivi della ritrattistica del pittore piacentino: la naturalezza dell’espressione colta in un attimo di disinvolta vivacità, la bellezza amabile dell’effigiata impreziosita da un incarnato perlaceo, reso attraverso delicate e pazienti velature di colore.
In merito alla pittura sacra può qui citarsi la grande tela con Le tre marie al sepolcro (olio su tela, 1812, Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti), allogatagli dal marchese Mandelli ma che poi il pittore regalerà alle Gallerie fiorentine, significativa testimonianza dell’evoluzione del linguaggio estetico del Nostro, che in questo caso rimedita stilemi primitivisti attraverso accensioni di ieratica solennità cromatica ed espressiva, aprendo la strada alle future generazioni puriste e nazarene.