Lo scultore Achille D’Orsi nacque a Napoli il 6 agosto 1845 e ricevette una prima formazione in campo artistico presso il Reale Istituto di Belle Arti, dove si iscrisse all’età di dodici anni frequentando la scuola di scultura sotto la direzione di Tito Angelini. Educato sulle fondamenta di una cultura classicista non impermeabile alle nuove istanze veriste che venivano professate dalle più giovani generazioni, lo scultore esordì nel 1863 con Un garibaldino ferito (terracotta, Napoli, Museo di Capodimonte) presentato alla II Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli. Al 1872 risale la vittoria del D’Orsi, insieme a Vincenzo Gemito, del pensionato romano, in un momento in cui si andavano definendo gli interessi di entrambi gli artisti verso soggetti popolari e tematiche quotidiane, dove una certa importanza era accordata all’uso di superfici scabre e irregolari che accentuassero i contrasti luministici. Emblematico delle ricerche figurative e del clima culturale che si respirava a Napoli in quegli anni, in seno al quale una certa influenza era esercitata anche dalla statuaria ellenistica, è il gruppo bronzeo denominato I parassiti (1876, gesso, Napoli, Museo di Capodimonte) presentato all’Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1877 e a quella di Parigi dell’anno successivo, nel quale D’Orsi rappresenta due antichi romani abbrutiti dal vino e dal cibo, realizzato con una sorprendente precisione archeologica declinata attraverso uno schietto realismo. L’opera suscitò aspre polemiche ma anche entusiastici giudizi, come quello espresso da Diego Martelli, e fu talmente apprezzata da Vittorio Emanuele II che decise di finanziarne la fusione in bronzo da destinarsi alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Affermatosi dunque come uno dei principali interpreti del realismo partenopeo, lo scultore si rivelò figura importanza decisiva anche per la diffusione di questo nuovo linguaggio nel Nord della penisola, presenziando tra le altre occasioni all’esposizione di Brera nel 1878, dove presentò l’opera Testa di marinaio (bronzo, Milano, Galleria Civica d’Arte Moderna). Nello stesso anno, come riconoscimento dei suoi meriti, D’Orsi venne nominato professore onorario del Reale Istituto, presso il quale divenne libero docente di scultura a partire dal 1888 e infine professore e preside nel 1902.
In merito alla produzione di carattere monumentale dello scultore possono citarsi i monumenti di Alfonso d’Aragona per la facciata di Palazzo Reale a Napoli (1866-1888), eseguito in riverenza alla statuaria ufficiale riscontrabile nei toni retorici e nel descrittivismo dei particolari; e quello collocato a Cosenza raffigurante Bernardino Telesio.
Morì a Napoli l’8 febbraio 1929.
Artista che indirizzò la propria ricerca formale verso la resa plastica di tematiche sociali e antiretoriche, in perfetta affinità e simbiosi con quella contemporanea dell’amico e collega Vincenzo Gemito, le ambizioni figurative dello scultore possono misurarsi nella scultura del Proximus Tuus (bronzo, 1880, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Presentata all’Esposizione Nazionale di Torino del 1880 l’opera suscitò scalpore per la novità del soggetto: infatti era la prima volta che veniva rappresentata, sotto forma di raffigurazione autonoma a sé stante, la durezza del lavoro nei campi e la miseria della plebe contadina con un’immediatezza così sconcertante. Il contadino è presentato stremato, accasciato al suolo, rassegnato alla propria umile e immutabile condizione, e ne viene descritto, senza echi di compiacimento mitizzante o di denuncia sociale, lo stato d’abbrutimento fisico e morale. Lo stesso D’Orsi fu costretto ad intervenire per respingere le interpretazioni politico-rivoluzionarie dell’opera, affermando che quest’ultima altro non era se non il risultato dell’osservazione del “Vero” nella sua forma più oggettiva, ispirato dal pensiero letterario di scrittori come Zola.
La parte più consistente della produzione dello scultore si incentrò prevalentemente verso la realizzazione di sculture di genere e busti-ritratto, come nel caso del busto di Filippo Palizzi (bronzo, 1895, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Altrettanto tipica, e spesso replicata attraverso vari esemplari e diverse tecniche, è la modellazione di “scugnizzi” e “quaglioncelli” partenopei, apprezzabile in sculture come A Frisio (bronzo, 1883, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), presentata all’Esposizione Internazionale di Nizza del 1883, che raffigura un “pescatorello” in bilico su una roccia mentre raccoglie le reti, colto nell’immediatezza di un gesto spontaneo e quotidiano, lodata per la finezza del modellato e la grazia della posa.