Jean-Baptiste-Joseph Wicar
(Lille 1762 – Roma 1834)
La Carità Romana
Olio su tela, cm. 70 x 60
Firmato, in basso a destra: WICAR INV.
È il bozzetto per un dipinto perduto, attestato dalle fonti, ammirato dai connaisseurs, e presente nello studio di Jean-Baptiste-Joseph Wicar fino al 1834, data della sua morte a Roma (Dufay 1844, p.376, nota 2).
Pittore e collezionista, l’artista vi era giunto una prima volta nel 1784 insieme a Jacques-Louis David, nel cui atelier, a Parigi, si era formato per tre anni, dopo un iniziale apprendistato all’Ecole de Dessin della nativa città di Lille. Ricevute, dopo il suo rientro a Parigi nel 1793, e grazie al suo maestro, varie nomine, tra cui quelle di segretario della Société Populaire et Républicaine des Arts e di membro della commissione del Conservatoire National des Arts, Wicar fu inviato nel 1796 in Italia – dove trascorse il resto della sua vita -, con il compito di selezionare opere d’arte da mandare in Francia. Arrivato da Firenze a Roma alla fine di gennaio del 1801, Wicar dipinse nel 1802 una scena tratta da Sofocle – Elettro, che incita Oreste alla vendetta contro Egisto e sua madre Clitennestra – e, l’anno successivo, La Carità Romana, forse esposta all’Accademia di San Luca (Beaucamp 1939, vol.2, p.376) quale pièce de reception ante litteram, per quanto i documenti non ne facciano menzione. Presentato in qualità di Pittore Istorico nella seduta dell’8 settembre 1805 (Archivio dell’Accademia di San Luca, Vol.56, c.48), Wicar divenne membro dell’Accademia di San Luca il 17 novembre dello stesso anno (Ibidem, c.50), mentre il 19 gennaio successivo sarebbe stato nominato Direttore de’ Forastieri (Ibidem, c.55).
Menzionato, al pari del bozzetto, nell’inventariopost mortem dell’artista (Beaucamp 1939, vol.2, p. 574), il dipinto con La Carità Romana era finora conosciuto – come gentilmente comunicatemi da Maria Teresa Caracciolo – grazie a un disegno preparatorio inedito per la figura femminile che porge il seno al vecchio (Perugia, Accademia di Belle Arti), oltre a un altro disegno dell’intera composizione di collezione privata (Lille 1984 fig.5, p.11).
Già affrescato nella casa di Valerio Frontone a Pompei, l’episodio di Pero e Cimone fu rappresentato nel corso del Rinascimento, ma soprattutto nel Seicento, quando il tema romano divenne l’allegoria di una delle virtù cardinali. Narrata da varie fonti latine – Valerio Massimo e Plinio, tra le più note – la leggenda della giovane Pero che offre il proprio seno all’anziano padre, incarcerato e condannato a morire di inedia, costituiva un modello di pietasfiliale, nonché un exemplum virtutis.
Nel motivo del velo bianco sollevato, che crea, al pari dell’antro, una cavità alle spalle delle due figure, non c’è solo una citazione stilistica tardomanierista, di ascendenza michelangiolesca, ma probabilmente un preciso intento semantico. Delle opere di misericordia di tradizione evangelica (Mt 25, 35-36), Wicar sembra infatti aver voluto riunire nella sua composizione, oltre ai precetti del dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, visitare i carcerati, anche quello del vestire gli ignudi. Non è forse una coincidenza che nel corso del 1803 – se effettivamente La Carità Romana venne realizzata in quell’anno – l’artista si recasse a Napoli, dove poteva ammirare Le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio, e successivamente a Genova, dove Perino del Vaga aveva affrescato l’episodio di Pero e Cimone sul soffitto di una delle sale di Palazzo Doria.
Chiara Stefani