Giacomo Manzù

Bergamo 1908- Roma 1991

Crocifissione • 1937

Bronzo, altezza 61 (con la base 76 cm) × 38,5 × 10 cm, su base originale in porfido trentino e legno

Esemplare unico

Opera autenticata da Giacomo Manzù il 3 marzo 1991 e con il numero Arch. 21/2024 dalla Fondazione Giacomo Manzù/Giulia Manzoni.

Giacomo Manzù ha incarnato, sin dagli anni Trenta, il modello ideale di un’arte sacra moderna, che nel tempo ha assunto valore estetico e iconografico tout court, al di là degli aspetti meramente devozionali. Le sue prime sculture di soggetto religioso erano state eseguite ad appena ventiquattro anni, nel 1932, presso la cappella dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con l’architetto Giovanni Muzio. La traccia di una forte matrice arcaizzante caratterizza questi primi anni milanesi, segnati dalla vicinanza a Edoardo Persico e dalla prestigiosa pubblicazione di alcune sue opere nella rivista «Domus». A seguito di questa primissima fase in cui Manzù, secondo le parole di Carrà «sa trarre le sue migliori risorse quando si dedicata alla scultura di soggetto religioso»[1], lo scultore, nel biennio 1934-1936 sembra abbandonare l’arte sacra per dedicarsi a soggetti femminili, approdando a un lirismo ritmato e a un modellato compendiario che si rivela in sculture come La dormiente e Donna che si pettina. A coronamento di questa svolta in direzione di uno sperimentalismo stilistico e tematico, dopo un significativo viaggio a Parigi con Aligi Sassu, Manzù tiene l’importante personale alla galleria La Cometa di Roma nel marzo 1937.
È in questo speciale frangente che lo scultore esegue il Cristo in Croce, bronzo del 1937, che si pone dunque come preziosa testimonianza dell’incursione dello scultore nell’arte sacra in un momento di apparente distacco dalle esigenze compositive prettamente liturgiche e appena prima della creazione delle formelle che tanto scalpore diffonderanno tra gli scranni dei prelati. Se il rapporto di Manzù con il mondo cattolico poteva dirsi già solido all’inizio degli anni Trenta, la realizzazione a partire dal 1940 del ciclo intitolato Cristo nella nostra umanità, costituito da una serie di bassorilievi in bronzo dedicati al tema della passione e della crocifissione (fig. 1), avrebbe certamente danneggiato tale legame. Le formelle, avvolte da tragico parossismo espressivo – in linea con il dramma delle guerra appena iniziata – raggiunto anche attraverso lo stiacciato, sono rappresentazioni vibranti ma lontane dalle canoniche iconografie. Seppur apprezzate dalla critica[2], per le nudità mostrate e per i vivi richiami alla contemporaneità, smuovono immediatamente il Sant’Uffizio, che per lungo tempo, almeno fino alla seconda metà degli anni Quaranta, prenderà le distanze dallo scultore.

Il Cristo in Croce, opera eseguita tre anni prima, tuttavia si inserisce ancora in quella limpidezza compositiva e iconografica, senza alcuna frizione di sorta, che da sempre ha connesso Manzù al mondo ecclesiastico, sia preservando l’equilibrio tra tradizione e modernità, sia facendosi massimo interprete delle inquietudini del proprio tempo. Questo crocifisso di matrice antichizzante, esemplare unico, è appartenuto al monsignor Giovanni Fallani (1910-1985)
(fig. 2). Esponente della cultura cattolica di avanguardia e di quel clero “illuminato”, tra i principali fautori di una profonda riforma dell’arte sacra, è stato uno studioso di letteratura, in particolare dantesca (i suoi studi, nel 1965, sono confluiti nel commento integrale alla Commedia), ma anche un esperto collezionista e conoscitore d’arte. Dopo aver pubblicato un volume sul pittore Gisberto Ceracchini nel 1945, si è dedicato anche all’approfondimento di Antonio Canova, con la pubblicazione nel 1949 della monografia Antonio Canova per l’Editrice Morcelliana di Brescia.

È stato una figura di riferimento per lo scultore, come testimonia anche il fitto carteggio conservato nell’Archivio Manzù, intrattenuto tra i due soprattutto in corrispondenza del lungo e difficile processo di selezione degli artisti durante i concorsi per la Porta della morte per la Basilica di San Pietro. Sarà proprio Fallani, nominato nel 1947 segretario della Pontificia commissione centrale per l’arte sacra in Italia, a suggerire Manzù, nel 1949, per l’incarico dell’esecuzione di alcune formelle della Via Crucis per la chiesa di Sant’Eugenio a Roma: l’intenzione è quella di riabilitarlo, in vista della prossima esecuzione della Porta e per assopire la diffidenza ancora viva di alcuni membri della commissione a causa della serie Cristo nella nostra umanità di pochi anni prima. Dopo l’assegnazione dell’incarico per la Porta della morte a Manzù nel 1950, seguita da lettera ufficiale del 1952, la Commissione vaticana interferisce in maniera sempre più crescente sulle scelte estetiche e soprattutto iconografiche dei pannelli della porta, mettendo l’artista in una posizione faticosa e difficile almeno fino alla fine del decennio, come testimoniano i diari e gli scambi epistolari con i membri della commissione e in particolare con il monsignor Grosso. Manzù richiede autonomia non solo per l’ideazione del programma iconografico, ma anche per la gestione della fusione e dell’installazione della porta, soffrendo le continue intromissioni della Commissione. Anche in questa circostanza, sarà sempre monsignor Fallani – grazie allo stretto rapporto con papa Giovanni XXIII – che Manzù riuscirà a portare avanti positivamente le proprie invenzioni tematiche, lasciando la sua impronta personale e profondamente umana nel maestoso portale, al di là delle esclusive esegesi dogmatiche e dottrinali che avrebbe preteso la commissione. Questo periodo sarà così intenso per entrambi, che Fallani narrerà in un volume (fig.3) l’intera esperienza del rapporto di amicizia con lo scultore durante l’ideazione ed esecuzione della Porta, pubblicato anni dopo, nel 1980, con Capitol: Manzù farà le porte di SPietro?

Il Cristo in Croce, secondo le fonti archivistiche dono esclusivo e intimo dello scultore all’amico Fallani, è stato autenticato dallo Studio Manzù nel 1990, a seguito dell’intercessione di Donatella Trombadori, figlia del pittore Francesco, e di Fabio Carapezza Guttuso, figlio del pittore Renato, molto vicino a Manzù. Il documento conservato nell’Archivio della Fondazione Manzù[3], datato 3 marzo 1990, conferma che l’opera è stata conservata nella stessa collezione e quindi anche dagli eredi di Fallani, almeno fino agli anni Novanta. A riprova della rarità e dell’unicità dell’opera, non solo la prestigiosa e significativa provenienza, ma anche e soprattutto le notevoli differenze rispetto alle varianti conosciute, sempre del 1937. Oltre ai passaggi in asta di diverse fusioni di Crocifissi a partire dal 1999, esclusivamente senza croce (ne è esempio la recente vendita Farsetti del 22/04/2024 di un Crocifisso di 31 x 32,5 cm), la più significativa variante, di dimensioni inferiori (35 x 34 x 5,5 cm) è conservata ai Musei Vaticani (fig. 4), nelle Collezioni d’Arte Contemporanea e risulta priva del crocifisso e della base, sostituiti da un supporto ligneo, definita da una fusione meno brillante, più opaca di quella di provenienza Fallani.

La seconda variante in collezione nota  (fig. 5) è appartenuta all’architetto Muzio ed è stata illustrata per la prima volta in un articolo di Pia Bruzzichelli dal titolo Opere inedite di Manzù del 1957, in cui la descrizione dell’opera, seppur presentando alcune differenze con il crocifisso qui presentato, come la diversa apertura delle braccia e delle mani inchiodate, esprime l’intensità formale della composizione: «Le lunghe braccia appese a una croce immaginaria, la composizione pur ruotando nella tradizione delle opere classiche, già preannuncia gli elementi che saranno evidentissimi fra un anno appena […] in tutto quello sconsolato donarsi che esce dal Cristo crocefisso»[4]. La croce, lungi dall’essere immaginaria, qui appare nell’imitazione bronzea della sua struttura lignea unita da corde. Aperte, quasi tirate le esili braccia, il corpo esanime del Christus patiens, il viso giovane dalla corta capigliatura – così familiare nei bronzi di Manzù – abbandonato sul petto, un’essenziale purezza d’insieme che arriva al dettaglio del costato ferito e alle sottili ginocchia sporgenti, fino a giungere alla parte inferiore della base: un elegante cono in porfido, che per esigenze di autarchia, nel corso del Ventennio, veniva estratto esclusivamente in cave italiane, precisamente del Trentino. Un ductus slanciato e agile, donatelliano, ammorbidito dai delicati passaggi chiaroscurali delle superfici, che invece si faranno ancor più scarne e asciutte nella riproposizione del corpo di Cristo per la scultura Il peccato redento (fig. 6). Eseguita due anni dopo sempre per l’architetto Muzio, con l’aggiunta di una teca in legno e delle due scabre figure tormentate di Adamo ed Eva ai piedi di Gesù, ha un effetto di crudo e sintetico realismo, che invece nel Cristo in Croce del 1937 appare ancora celato da un suggestivo ed equilibrato pathos contenuto.

Elena Lago

[1]   C. Carrà, Mostre d’Arte. Manzù e Sassu alla Galleria Tre Arti, «L’Ambrosiano», 28 giugno 1934.

[2]   Recensioni positive arrivano da Cesare Brandi e Nino Bertocchi. Giulio Carlo Argan ha definito questi bassorilievi come «le sole opere religiose del nostro tempo», in Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere. Scritti militanti e rari 1930-1942, a cura di C. Gamba, Milano, Marinotti, 2009, p. 175.

[3] Il fondo è attualmente in fase di riordino e non è possibile quindi fornire riferimenti archivistici.

[4] P. Bruzzichelli, Opere inedite di Manzù, La Rocca, 1 dicembre, 1957, p. 13.

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