Luigi Pampaloni

Firenze 1791-1841

Venere che entra nel bagno • 1836-37

Bozzetto in terracotta, altezza 38 cm

Venere è raffigurata in piedi nell’atto di avvicinarsi all’acqua; nell’incedere, l’ampio telo che ne celava la nudità scivola verso terra, e la dea, nel tentativo di nascondere il proprio corpo a sguardi indiscreti, si reclina leggermente su sé stessa coprendosi il seno con la mano destra mentre volge il capo dallo stesso lato, come a rassicurarsi di non essere osservata. Una simile concomitanza di gesti spontanei infonde movimento alla figura e ne esalta la naturalezza suggerendone una visione trascorrente e aggiuntiva.

Con abilità e finezza lo scultore plasma il tenerissimo nudo femminile di cui suggerisce la fragrante sensualità tramite sapienti passaggi chiaroscurali e ben meditate variazioni nel modellato; la luce crea delicate modulazioni d’ombre trepide sul petto e sul ventre, per poi scorrere morbida sul dorso e sulle natiche della statua, quasi invitando alla carezza, mentre il ricco panneggio, che ne avvolge con pieghe fluenti le gambe, dà origine a un coinvolgente risalto ‘cromatico’, accostato alla liscia compattezza della carne.

La terracotta è il bozzetto per la scultura in marmo, grande al vero, ordinata nel 1836 dall’americano Meredith Calhoun, un ricco proprietario terriero dell’Alabama, nato in Pennsylvania, collezionista di opere moderne toscane fra le quali una replica della Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini[1]. Presentata nel settembre 1838 all’esposizione annuale dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, la Venere che entra nel bagno venne accolta con il generale favore della critica e del pubblico per la capacità inventiva dell’artista il quale, discostandosi dal «tipo greco», aveva saputo, «con grata originalità», creare «un tipo di bellezza nostrale» di assai maggiore coinvolgimento emotivo[2].

Vincolato dalla richiesta del committente a misurarsi con un soggetto ormai considerato incapace di muovere al sentimento, e oltretutto privo di implicazioni morali, Pampaloni si era impegnato a elaborare una maniera innovativa di rappresentare la divinità classica, tale da decretare il superamento dei modelli desunti dalla tradizione figurativa e in particolare dalla Venere Italica di Antonio Canova, opera ben nota all’artista e che egli si era esercitato a copiare al tempo della propria formazione neoclassica, quando aveva anche eseguito una redazione di piccole proporzioni di quel celeberrimo precedente, correggendola sull’originale[3]. Persuaso dell’importanza della lezione di Lorenzo Bartolini riguardo all’imitazione artistica della natura, Pampaloni aveva assunto a modello il ‘vero’ emendato dai difetti, e convenientemente adattato al soggetto, per rinnovare dal profondo il tema mitologico riconducendolo in un contesto terreno.

A Firenze, negli anni di affermazione del gusto romantico, una simile disposizione di pensiero era comune agli artisti più aggiornati, e a Giuseppe Bezzuoli fra i primi; la loro arte, attenta alla varietà della natura e soffusa di dolci inflessioni sensuali, era capace di trarre sentimenti coinvolgenti e di piana comprensione anche dalle favole mitologiche, intessendole di verità mutuate dall’esperienza umana. Non è un caso, dunque, se caratteri formali considerati dalla critica più sensibile e accorta come distintivi delle espressioni artistiche più attuali, quali «la semplicità», l’ispirazione sollecitata dalla natura «imitata nella sua ineffabile varietà», la capacità di «sollevarsi ad un tempo colla robustezza dell’immaginazione a concetti solenni che toccano il cuore»[4], erano ritenuti da Melchior Missirini – profondo estimatore di Luigi Pampaloni – peculiari dell’opera dello scultore, profusa della «grazia non cercata e tutta propria dei subbietti», della seducente semplicità delle movenze, della naturalezza delle fisionomie, dell’espressione affettuosa dei sentimenti, e, infine, della maestria nel trattare con «ugual perfezione l’amoroso e il terribile»[5].

Per ottenere l’espressione di toccante ‘verità’ che si era prefisso nel raffigurare Venere che entra nel bagno, lo scultore si applicò con sollecitudine a sperimentare le forme e le attitudini più convenienti a un simile soggetto[6], come il bozzetto preparatorio testimonia anche in misura superiore di quanto non avvenga nell’opera finita.

Da quanto, infatti, è dato giudicare dal confronto con il gesso della statua, oggi conservato all’Accademia di Belle Arti di Firenze – del marmo, pervenuto nelle raccolte dell’industriale californiano Eli P. Clark nel 1910, si sono perdute le tracce[7] –, Pampaloni, nel plasmare la terracotta, ideò un’immagine della dea con le chiome sciolte, spartite in due bandeaux sulla fronte, e che scendono in ciocche inanellate ai lati del collo per poi confondersi sulla nuca con i nastri della cuffia che a malapena le trattiene; un’acconciatura semplice, atta a suggerire naturalezza e «spontaneità perfette»[8], nobilitate dai colti rimandi all’antico mediati dai maestri del Quattrocento toscano, secondo le indicazioni del Purismo metodologico.

Al momento di tradurre nel gesso il pensiero elaborato in creta, lo scultore, però, concepì una maniera del tutto diversa di acconciare la chioma, con una treccia raccolta a chignon, e sul capo un fiocco formato dai capelli; una pettinatura evocativa della moda degli anni e che al medesimo tempo donava alla testa della statua una leggiadria tardo-settecentesca, alla Chinard. Era una maniera probabilmente ricercata da Pampaloni per accentuare la dolcezza sensuale della figura e che, unita al sorriso che aleggia sul volto della dea, dotò la scultura di una grazia maliziosa non dissimile da quella che connota l’Amore in agguato eseguito dall’artista intorno al 1835 per commissione di Luigi Cambray Digny; un’intonazione che determinò il generale apprezzamento della Venere che entra nel bagno, e in particolar modo della sua testa tanto che ancora alla fine dell’Ottocento se ne eseguirono riproduzioni litografiche e sue repliche figuravano nel catalogo della Manifattura di Signa, prestigiosa industria ceramica toscana[9]. Solanto Melchior Missirini, pur decantando le qualità formali della statua, si dispiacque dell’aspetto eccessivamente seducente di «quella Venere terrestre» capace di «incendere i petti di sentimenti troppo umani»[10].

E invero, se Pampaloni nel portare a termine l’opera avesse tenuto fede al pensiero messo a punto nel bozzetto, nel quale la sensualità affiora con naturalezza e sensibilità straordinarie, e senza alcuna compiacenza, egli avrebbe meritato ancora una volta l’elogio tributatogli da Missirini a proposito della Cloe: l’essere, egli, «l’Andrea del Sarto della scultura», perché «come quello, co’ soli elementi naturali bene scelti, ben condotti, otte[neva] plauso»[11].

[1] Vedi M. Amedei, Dagli Stati Uniti alla Toscana. Artisti nordamericani a Firenze dal 1815 al 1850, Pisa 2021, pp. 24-25. La raccolta di Calhoun, acquisita nella sua interezza dall’industriale Eli P. Clark di Los Angeles nel 1910, è andata dispersa.

[2] G. Pagni, Cenni intorno alla vita e alle opere di Luigi Pampaloni, II parte, «Il Genio», I, 7, 1852, pp. 51-52.

[3] ASGU, Firenze, 1813-1814, XXXVIII, 45; vedi A. Caputo, in Accademia di Belle Arti di Firenze. Scultura 1784-1915, a cura di S. Bellesi, Pisa 2017, n. 12, pp. 348-349.

[4] Ant.M. Izunnia, Prefazione, in Reminiscenze pittoriche di Firenze, Firenze 1845, pp. 7-10, p. 9.

[5] [M. Missirini], Memorie sulla vita e sui lavori dell’insigne scultore fiorentino Luigi Pampaloni, raccolte da Melchior Missirini e pubblicate per cura di Lorenzo Antonini, Firenze 1882, p. 7.

[6] C. Pontani, Delle opere del sig. professore Luigi Pampaloni scultore fiorentino, Roma 1839, p. 8.

[7] M. Amedei, cit., p. 26.

[8] [M. Missirini], cit., p. 7.

[9] A. Caputo, cit., p. 349.

[10] M. Missirini, Esposizione di Belle Arti di Firenze, anno 1838, «Biblioteca Italiana, ossia Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti, compilato da varij letterati», XCIII, 1939, pp. 124-126, p. 125.

[11] M. Missirini, La Cloe, statua di Luigi Pampaloni, Firenze 1837, p. 13.

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